lunedì 18 novembre 2013

Lunedì, 18 novembre 2013. A parte le considerazioni di questa mattina, sull'anima e sulle cellule cerebrali, è passato un sacco di tempo dall'ultima volta che ho messo mano a queste pagine. Di cose devono esserne accadute, ma non ricordo quasi niente. Forse è il modo in cui passa la vita. Quando arrivi alla fine, potresti anche chiederti – Che cazzo ho fatto tutto questo tempo?- Per quanto mi riguarda, spero tanto di avere una risposta. Tornando a considerazioni meno esistenziali, una delle cose che ricordo con piacere è di essere riuscito, a furia di tagli e cuciture, nuovi tagli e nuove cuciture, a sistemare la vela latina. Adesso si naviga sul serio, anche con vento debole. Mi sono anche tolto le sfizio di issare un piccolo fiocco, e va bene anche lui. Si tratta di modelli, entrambi, ritagliati su materiale di fortuna, ora non resta che ritagliarci sopra tele più idonee alle velature. Dunque, il capitolo vela è pressoché alla fine. Che altro? Ah, sì, il motore si lascia dietro una scia colorata e untuosa, dai riflessi di luce piuttosto gradevoli, che però denuncia perdita di olio o carburante, o entrambi. Un tipo di incontinenza che non si risolve con i pannolini, perciò mi sono dovuto fare venticinque chilometri per portarlo dal meccanico. Naturalmente ho dovuto lasciarglielo. Qualche giorno fa Eolo deve essere passato da queste parti e si è fatto sentire di brutto.
All'esterno del porto il mare era rabbioso, e aveva le sue ragioni, visto che il vento non smetteva di rompergli i coglioni sbuffandogli sopra a settanta, ottanta chilometri l'ora. All'interno, le imbarcazioni attraccate ai pontili erano cavalli impazziti e incontenibili. L'unico pontile galleggiante, combinazione proprio il mio, sussultava e si dimenava come un viottolo aggredito da almeno cinque gradi della scala Richter. La barca si stava riempiendo d'acqua e continuava a dimenarsi in tutte le direzioni. Aumentava la pioggia, il livello dell'acqua nello scafo continuava a crescere. Ancora un paio d'ore e addio, e recuperare un natante affondato nel porto costa un sacco di soldi, e un fuoribordo che rimane due o tre giorni nell'acqua salata è da buttare. Scelta obbligata, vuotare lo scafo per evitare che andasse giù. Problema, raggiungere l'attracco in equilibrio sul pontile malgrado i violenti scossoni e poi centrare la barca al primo salto. Quasi mission impossible e per renderla possible sono corso a casa e mi sono corazzato con la muta da sub. Anche se il pontile mi avesse sbattuto in mare sarei potuto salire in barca e vuotarla. Non so come, in mare non ci sono caduto e ho centrato la barca al primo salto. Merito della muta, sapevo di non rischiare molto. Il salto di ritorno, dalla prua al pontile, non è andato bene come il primo, perché con un piede trattenuto da una cima, sono finito sul pontile con il sedere. Tutto bene. Ho gattonato fino al cancello. Mi sono raddrizzato e ho afferrato i corrimano della passerella. Mi sono guardato indietro soffermandomi sul pontile deserto, impazzito, e sulla barca che continuava a scalpitare sbatacchiata dal vento e strattonata dalle cime di prua e da quelle di poppa. Ho provato un po' di paura e di certo devo averla provata anche prima. La mattina seguente sono tornato a dare un'occhiata. Solo sul nostro pontile, tre barche affondate.

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