domenica 12 settembre 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Mercoledì, 24 marzo 2010
Alle dodici ho recuperato la macchina, come da programma, alle due ci ho caricato sopra l’albero e la vela provvisoria arrotolata al pennone, con due segnali rossi a ciascuna estremità, in realtà due rulli di plastica sgonfi facenti funzioni, e anche un po’ di fifa perché il pennone di oltre cinque metri sporgeva drammaticamente sul davanti e sul retro dell’auto, cosa che di solito la polizia disapprova e si premura di sconsigliare per iscritto, in lettere e in cifre. Per fortuna, anche i poliziotti fanno pranzo. Ho raggiunto la barca, incastrata fra le altre in una sorta di disordinato rimessaggio e fin qui tutto bene. Per provare la vela sull’albero e prendere le misure prima di tagliare avrei avuto bisogno di calma piatta o, meglio ancora, di un venticello del Sud. Invece mi è arrivato da Nord, proprio sulla poppa, a spingere la vela dalla parte opposta. Spostare la barca sarebbe stato impossibile, il lavoro scomodo e troppo approssimativo, me ne sono tornato a casa. La TV è sovraccarica di propaganda elettorale, un’aggiunta agli spot pubblicitari, alcuni leader non ripetono che slogan, senza un vero significato, proprio come negli spot. Uno dei pochi pregi della TV è la facoltà di cambiare canale. O di spegnere il televisore. Zac!

Giovedì ho tralasciato di scrivere perché sono stato impegnato con la vela. E’ arrivato l’agognato venticello del Sud e mi sono proiettato in spiaggia. La prima volta per prendere le misure. Malgrado il vento fosse quello giusto, non era per niente facile essere preciso senza qualcuno che mi reggesse la vela. Naturalmente le ho prese lo stesso, tanto rischiavo solo un telone da dieci euro. A casa ho disteso il telone sullo scivolo e ho tagliato in base ai segni che ci avevo fatto con il pennarello rosso. Mi sono aiutato con un nastro adesivo, incollandolo lungo i bordi per evitare casini mentre tagliavo. Ne è risultata una vela decente, solo, mi pareva un po’ piccola. Nel pomeriggio sono tornato per la prova. L’ho legata di nuovo al pennone e finalmente l’ho issata. Quasi mi viene un colpo, perché invece della vela che mi aspettavo ho visto un mostro fluttuare nell’aria. Tanta era l’ansia di vedere com’era riuscita, che avevo issato il pennone a rovescio. Un pescatore, vicino a me, mi ha chiesto se stavo tirando su uno spi. Cazzo, se aveva ragione. Ho rovesciato il pennone e ci ho riprovato. Niente male, e non era neanche piccola. Lavoro finito, pronti per la prova in mare. Manca solo un occhiello sull’angolo di poppa per passarci la scotta. Ci penserà la mia parente merciaia. Dopo pranzo mi sono seduto vicino a mia moglie davanti alla televisione. Davano uno di quei polpettoni che vengono trasmessi da una generazione all’altra senza soluzione di continuità, dove i ruoli dei protagonisti vengono poco a poco modificati per intollerabili limiti di età degli attori, che cominciano come amatori e finiscono per fare i nonni. Ci sono delle eccezioni, con interpreti che hanno l’aria di rospi, senza neanche una futura chance di trasformarsi in principi, ai quali viene affidato il ruolo di amatori irresistibili. Cazzo, un minimo di rispetto per l’audience. In proposito, hanno dovuto ricredersi anche nel mondo del melodramma. E’ vero che si andava all’opera per ascoltare performance vocali di grandi tenori, soprano, baritoni e bassi, ma c’era anche una trama, e raramente i personaggi avevano le phisique du rôle. Era necessario sottostare alla violenza di accostamenti innaturali per poter credere al dramma di una Butterfly di cinquant’anni, larga come una botte e con il doppio mento, o al folleggiare di una Violetta, alla passionalità di una Carmen che entravano in scena vecchie e con tratti pachidermici, a un’Aida campionessa di wrestling, a un Rodolfo che, nella Bohéme, se fa pranzo non fa cena e a volte non fa né l’uno né l’altra, che si presenta sul palcoscenico gonfio come una mongolfiera e prende in mano una gelida manina dalle dita simili a salsicce. Voci di usignoli che uscivano dall’ugola di cornacchie, con tutto il rispetto, ma nessuno sembrava farci caso. Ultimamente, però, ho visto un paio di trasmissioni decenti alla TV, dove si esibivano cantanti lirici, più o meno giovani. Nessuno avrebbe sfigurato nei ruoli di Carmen, di Violetta, di Rodolfo, di Aida o della Butterfly, e si sarebbero accordati mirabilmente ai testi che i librettisti avevano scritto pensando a tipi come loro. Lo sappiamo tutti che è una finzione, ma se agli artisti non manca le phisique du rôle possiamo almeno fingere che sia vero, immedesimarci nella vicenda e goderci il pathos. Il termine originario di un tale atteggiamento autoingannevole del lettore, in questo caso dello spettatore, è inglese. Si chiama suspension of disbelief (sospensione dell’incredulità, più o meno) e non è niente di nuovo, come concetto letterario risale agli inizi del secolo scorso. Un tempo era riservato a pochi addetti ai lavori, ma dopo una sorta di revival nel film Basic Instinct, ora è di certo un concetto universale.

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