giovedì 27 ottobre 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Mercoledì, 29 settembre 2010. Domenica scorsa, un po’ discosta dal solito mercatino, era attiva una promozione di corsi permanenti per tutte le materie dello scibile dell’epoca. Fra la miriade dei medesimi, elencati su un paio di enormi poster, ne ho scovato uno che potrebbe anche fare al caso mio. Almeno dovrebbe, considerando che da febbraio aspetto che mi venga completato un sito sul quale avrei una mezza idea di mettere in vendita le mie creature saggistiche e letterarie. Il corso riguarda la creazione di pagine WEB. Ho telefonato per informazioni, proprio stamattina. Centocinquanta euro per un corso di otto mesi, una lezione serale per settimana. All’incirca trentadue lezioni, ventotto se togliamo un mese di vacanze, perché non dubito che ci saranno anche quelle, all’incirca cinque euro a lezione o poco di più. Inizio previsto per l’undici di ottobre. Hanno registrato il mio numero e mi faranno sapere. La cartolina di San Pietroburgo che ho spedito a mio cugino non è arrivata. E ti pareva. Avrei dovuto spedirla dalla Russia. Il francobollo italiano deve aver scatenato nella testa del postino una contraddizione di termini insuperabile. Avrà risolto la cosa cestinandola. E’ un pezzo che non scrivo, perciò cercherò di riassumere. Per frenare lo scarroccio abissale della barca, ho fatto un salto ad una rivendita di legname, a pochi chilometri da casa, in cerca di una deriva salvifica. E’ l’unico posto, nei dintorni, dove il legno, quando possono, te lo tagliano anche a seconda di come ti serve. Sono capitato in un momento di quelli da evitare. C’erano due coppie di clienti, poco ferrati in aritmetica, che non facevano che ripetere i calcoli per decidere come doveva essere tagliato il legname. L’addetto alla vendita non sapeva che pesci pigliare, cercava di aiutarli a tirar fuori le dimensioni giuste, ma alla fine rinunciava perché, anche se il calcolo era esatto, nascevano nuovi problemi e si doveva ricominciare. Smoccolando in silenzio, ne ho approfittato per dare un’occhiata in giro e ho visto una tavola buttata da una parte, apparentemente senza un futuro glorioso, ma per me, almeno per una prova, poteva anche andare. Era un po’ strettina, poco spessa, ma lunga abbastanza. Inaspettatamente uno dei quattro si rende conto che qualcuno si sta rompendo a furia di sentir ripetere che i calcoli sono sbagliati, e non parlo solo dell’addetto alla vendita, mi si avvicina per sapere se posso sbrigare la mia faccenda in fretta. Naturalmente dico di sì, mostro al commesso la vecchia deriva che ho portato con me e gli dico che mi serve una tavola un paio di spanne più lunga. Il giovanotto mi dice che gli spiace ma non ha compensato marinato e non può servirmi. Lo avevo previsto, gli faccio vedere la tavola senza futuro e gli chiedo quanto ne vuole. –Questa?-, mi fa, come se gli avessi chiesto di vendermi un sacchetto di RSU. Poi fa una smorfia, come se stesse facendo un calcolo, ma giunge ancor prima a una conclusione diversa.
-Portala via!-. Fa un gesto con la mano, come se avesse aspettato quel momento per liberarsene. Ringrazio, saluto e me ne vado. Il giorno seguente la provo insieme al timone riesumato. C’è un grecale killer e non è consigliabile uscire per una prova, perciò rimango all’interno del porto. Faccio un’oretta di su e giù fra i pontili che si protendono dalla banchina e dal molo est, ma non riesco a fare una virata. Solo strambate. Continuo a prendere il vento di striscio, la barca si muove malissimo, non guadagno un metro d’acqua, anzi, vengo spinto lentamente verso il molo sud. Fanculo. Ci riprovo il giorno dopo con l’altro timone, quello acquistato con la barca. Sorpresa. C’è uno scirocco debole, ma riesco comunque a rientrare in porto. Anche la prova successiva la faccio fuori del porto, con lo scirocco a venticinque nodi e un mare seriamente incazzato. La barca prende più vento, orza e guadagna acqua. Incredibile, ma dopo un po’ riprendo a smoccolare. Non vira. Ci provo e ci riprovo. Non vira. Insisto e mi salta l’attacco della scotta al pennone basso. Ammaino tutto l’ambaradan, torno con il motore verso terra a mi attacco a una boa, sparuta superstite fra quelle che ancora un mese fa ballonzolavano garrule sulle onde, tutte bene allineate e impegnate ad indicare il limite di balneazione, e allo stesso tempo il limite oltre il quale le barche non potevano spingersi verso terra. Rimetto a posto la scotta e di nuovo isso la vela. Di nuovo sento che la vela fa il suo lavoro, anche se non proprio fino in fondo, ma di certo la barca orza a sufficienza per vincere la corrente e rientrare contro vento. Per una poggiata fatta con noncuranza e poco riuscita, rischio di abbordare due poveri cristiani che se ne stanno all’ancora, protetti dal molo, a pescare. Gli sono passato tanto vicino da vederne le facce stralunate, ma niente botto. Ho riprovato a virare. Una, due, tre, quattro cinque volte, alla fine mi sono rotto le scatole. Per tornare avrei dovuto strambare, ma, con quel vento chi me lo faceva fare? Quando la vela non va bene, in particolare, il boma si oppone alla strambata, poi, quando il vento non gli lascia scampo, piomba sull’altro lato come una mazza da baseball e fa del suo meglio per spaccare teste e rovesciare imbarcazioni. Per quanto mi riguarda, il collaudo a venticinque nodi è finito e posso rientrare. Il risultato e che con la nuova deriva provvisoria e il timone di fabbrica le cose sono migliorate. Resta il problema della virata.
Quando ci rimetto le mani, decido di allargare la tavola di quel tanto che le consenta di occupare tutto l’alloggio della deriva. Dovrò razzolare fra i ritagli di legname, che conservo scrupolosamente in un angolo del garage. Prima o poi mi tornano utili. Devo dire che mia moglie, che vede ordine e pulizia quasi in cima alle priorità dell’esistenza, considera la cosa da un punto di vista diverso, ma questa è un’altra storia. Ci riprovo con una ventina di nodi, sempre scirocco, per un collaudo sono sufficienti. Con la deriva allargata, la barca continua a stringere il vento leggermente in eccesso, ma, udite, udite!, riesco a virare. Ci provo e ci riprovo e quasi non ci credo. Questo lungo tormentone è ormai prossimo alla fine. Sulle ali dell’entusiasmo riprendo la vela latina. Sono sicuro che con la nuova deriva funzionerà, e infatti funziona. E mi piace da matti. Ieri la fornaia si è sbagliata a fare i conti e mi ha fatto uno scontrino con un euro in più. Per sdrammatizzare le ho detto che l’errore ci rende umani e ho anche aggiunto, chissà per quale ispirazione, che la perfezione è nemica della felicità. Lei ha osservato che la felicità non esiste, e io non ho voluto contraddirla. Volendo considerare la felicità una condizione stabile, una volta raggiunta, aveva sicuramente ragione, ma avrei potuto dirle che esistono le piccole felicità, che ci capita di provare, a volte, anche se non tanto spesso, e che la felicità che a ciascuno è riservata nella vita non è altro che la somma di tante piccole felicità. Se l’ho fatta tanto lunga è stato solo per spiegare al meglio come mi sono sentito dopo l’ultimo collaudo e dopo la prova con la vela latina che mi piace un sacco. Pare che i miei rapporti con la fornaia mi spingano a considerazioni filosofiche. Ieri mattina sono andato a comprare il pane senza portafoglio. Era rimasto nei pantaloni che mi ero cambiato prima di uscire. Oggettivamente niente di grave. Ho fatto un salto a casa, abito a due passi, ho ripreso il portafoglio e sono tornato a pagare. Un inconveniente di cinque minuti. Stranamente, però, mi è tornato alla mente il mio primo esame universitario. Era un esame di Filosofia, con un corso monografico su Sartre.Il titolo era “Gli altri in Sarte”. E’ lo sguardo degli altri, quello che incute maggior timore. Lo sguardo che reifica, ti rende cosa immutabile e senza divenire. D’altronde anche il mio sguardo, diretto verso gli altri, tende a conferire tali contorni. Chissà che anche la fornaia non mi abbia cosificato per sempre come smemorato deficiente. Per fortuna lo sappiamo tutti che da ogni percezione impariamo qualcosa sull’altro, e che in genere niente ci appare in un unico momento sotto tutti i suoi aspetti e da tutti i punti di vista. Questo è senz’altro consolante, ma confesso che a volte non posso evitare che lo sguardo e l’udito prendano il sopravvento su ragione e filosofia. L’altra sera, passando da un canale all’altro, mi è apparsa una scena, solo per un attimo. C’era un tizio, probabilmente un giornalista di ultima generazione, con una faccia che, se richiesto e limitatamente alle mie discutibili capacità di giudizio estetico, avrei detto un incrocio fra un maialino e un ippopotamo in amore. “Parleremo di mamme assassine!”, annunciava festoso, esultante nel dare una notizia tanto gratificante, agitando le braccia plaudente e sollecitando nel contempo il plauso di una audience con seri problemi di convivenza sociale, di certo acquisiti per contagio televisivo. Confesso che il mio sguardo (confortato dall’udito) lo ha cosificato seduta stante. Se lo rivedrò, mi apparirà come oggetto di natura organica, forma approssimativamente cilindrica, più o meno lungo o spesso, odore più o meno repellente. Che altro merita di essere ricordato di questi ultimi giorni? Dunque, sono andato a vedere un film che parlava di solitudine e di numeri primi, e ho avuto quello che mi meritavo. Quando intorno ad un romanzo o un film spira aria intellettuale, meglio evitare. A parte l’azione di una lentezza esasperante, non si capiva una parola. Pare che oggi agli attori non serva più studiare dizione, perché i registi illuminati preferiscono che si esprimano al naturale. Il risultato è che per seguire la trama occorre un faticoso lavoro di intuizione. Chi paga il biglietto potrebbe anche farne a meno. Che altro? La prima sconfitta dell’Inter. E’ già aria di crisi e ci sono problemi di spogliatoio. Forse è cominciata la fase discendente. Stasera c’è il secondo incontro di Champions. Staremo a vedere.

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