lunedì 7 giugno 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

10.02.10
Sto vivendo giorni di autosegregazione forzata e percepisco, sempre più vicina, una violenta esplosione claustrofobica. In condizioni normali sarebbe arrivata già da un pezzo. Mi sorge il dubbio che si tratti di un vaneggiamento del subconscio, rimasto immune allo sbatacchiamento di tosse e febbre e all’effetto devastante degli antibiotici. In Braccia deboli, le gambe mi reggono appena. Per fortuna, niente febbre. Fa freddo. Piove. Non sono scrosci. Goccioline minuscole, invisibili, si posano sull’asfalto della strada, sulle zolle della campagna e sulla quercia dirimpetto alla finestra, leggiadre e impercettibili come invisibili fiocchi di neve, quel tanto da far penetrare l’umidità nelle ossa e farci stazionare tutto il freddo possibile senza speranza di rimozione. Ci sono freddi diversi. Per esempio, il freddo sulle Alpi. Le ho attraversate in un’auto senza riscaldamento, insieme a quell’altro incosciente che era mio padre, in un mese di gennaio che stento a ritrovare fra i ricordi, tanto mi pare distante e irreale. A un certo punto ci sentivamo rigidi come baccalà e allora accostavamo per sostare sull’orlo della strada. Scendevamo e cominciavamo a battere i piedi sull’asfalto, come forsennati. Pochi minuti e il sangue riprendeva a circolare, il calore e le energie si rinnovavano consentendoci di risalire in macchina e proseguire per un altro paio d’ore. Poi di nuovo a battere i piedi. Provarci con questo tempo servirebbe solo a schizzare di fanghiglia i pantaloni e far incazzare mia moglie. Lunedi mi toccano le ultime due analisi. Se la doc non storce di nuovo il naso, butterò giù un programma di sortite strategiche. Senza fretta. Per prima cosa, sistemare l’attacco per lo strallo di prua. Cominciano a tornarmi in mente cose pratiche, cose da fare. Buon segno. Il secondo punto in agenda sarà provare la vela. Cazzo, al pensiero che la barca si inchiodi mi sento male, ma potrebbe anche partire a razzo e non mancare una virata. Pensare in positivo. Partirà a razzo. Il terzo punto in agenda sarà riparare tutti i danni allo scafo, per fortuna sopra la linea di galleggiamento, dovuti a uno sconsiderato uso di viti, anelli e ponticelli, certamente avverso alle buone intenzioni del mio amico pittore, che di quando in quando deve essersi dato da fare a rimediare a qualche problema al timone, agli scalmi e alle consuete manovre. Il risultato è che ci sono più spaccature e buchi mal riusciti su entrambi i bordi che su una fetta di groviera di quattro metri da un lato e quattro dall’altro. Gli va comunque attribuito un certo merito per le buone intenzioni, che invece non gli va riconosciuto osservando alcuni squarci a prua e a poppa. Piccoli squarci, in alto, non livellati, difficili da riparare, per fortuna innocui per la navigazione. A vederli viene da chiedersi in quali rapporti fossero la prua o la poppa, a seconda del verso dell’ormeggio, con il pontile. Cattivi rapporti, di certo. Più o meno come le automobiline dell’autoscontro con il bordo della pista. Un botto ad ogni rientro, ma senza la camera d’aria di protezione. Onore alla vetroresina. Materiale resistente. Se tutto va bene, riprendo a navigare fra un mese o due. Navigare da soli è il massimo, è come riacquistare una identità fetale, con il vento e le onde che ti cullano e ti proteggono, come una placenta fatta di aria e di acqua, in grado di tenerti lontano per una, due o tre ore dalla carta bollata, da call center aggressivi e irriducibili, dalla mediocrità imperante alla televisione, dalla disgrazia dei quiz sempre più ridicoli, con i quali ignoranza crassa e supina viene contrabbandata per cultura, dai talk show, merda importata dall’America che nel nostro paese attecchisce come erbaccia sulle rovine, dai convegni di approfondimento giornalistico, dove i conduttori uomini sentono aria di divismo e sempre più a lungo indugiano nei camerini dei truccatori prima di entrare in scena, per non parlare di chi si tinge i capelli di rosso o si sottopone a impegnative operazioni di lifting. Veleggiare in solitudine a un miglio, due miglia dalla costa, un sogno, con gli accessori di bordo in regola per evitare bruschi risvegli nel caso di un’ispezione della Guardia Costiera. Eppure, malgrado uno scenario naturale tanto idilliaco, non si è esenti da rischi. Non mi riferisco al mare agitato o ai trenta nodi di vento che ti sorprendono quando meno te lo aspetti, perché se esci dal porto devi aspettarti di tutto e devi sapertela cavare ed essere capace di rientrare in qualsiasi situazione. Altrimenti, meglio non uscire. Mi riferisco, invece, all’inquinamento dei porti, specie quelli grandi, dove stazionano perennemente un gran numero di navi. Pare che ciascuna di esse sia una immensa fonte di inquinamento capace di produrre asma e cancro nella stessa misura in cui ne sono capaci migliaia e migliaia di auto che sputano veleni a tonnellate. I maggiori responsabili, i generatori diesel. Il problema sarebbe in gran parte risolto portando l’elettricità fino alle banchine, ma pare che i comuni siano a secco. Dunque, il signore della vita e della morte continua ad essere il dio quattrino. Noi abbiamo solo un porto rifugio, piccolo, grazie al cielo, dove le grosse navi neppure riescono ad entrare. Ci sono progetti di allargamento, ma per il momento restano progetti. In futuro, potremo sempre contare sulle lungaggini e sugli inevitabili ostacoli burocratici. Siamo in Italia, per fortuna.

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