mercoledì 23 febbraio 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Giovedì, 17 giugno 2010
Sabato scorso, visita ad Assisi. Con un gruppo, tutto al femminile, a parte qualche marito, come me, cui era stato consentito di seguire le consorti, tutte membri di un’associazione che fornisce un qualche tipo di assistenza sociale nella zona. Levata alle cinque di mattina. Il guaio è che quando so di dovermi alzare molto presto non riesco a dormire, e a furia di girarmi e rigirarmi nel letto sono arrivato alle quattro. A quel punto ne ho avuto abbastanza e sono sceso in cucina a farmi un paio di caffè e fumare un paio di sigarette. Alle cinque ho sentito la sveglia che sconvolgeva i sogni di mia moglie. Di questa gita ricorderò un paio di cose. San Francesco in realtà si chiamava Giovanni, ma siccome già da piccolo parlicchiava il francese, appreso dalla madre, gli avevano attribuito un nomignolo che suonava come Frances o qualcosa del genere, completatosi poi nel nome che conosciamo. Nessun Francesco prima di lui. Tutti gli altri, protagonisti di glorie o di miserie, sono venuti dopo. Quanto alla seconda, mi sono soffermato a lungo davanti al saio del Santo (non saprei dire se fosse proprio un saio) e alla veste di Santa Chiara. Due stracci. Niente a che fare con le alte cariche ecclesiali. Era inclusa una gita in traghetto fino all’Isola Maggiore. Cinque minuti, forse dieci. Con mia moglie ci siamo addentrati nell’isola per una ventina di metri, fino ai tavoli di un bar. Gli altri hanno proseguito fino alla meta prevista, mi pare una villa. Si è alzato un vento forte e caldo e le acque del lago si sono increspate. Siamo ripartiti in orario. Il pilota ha manovrato all’indietro per staccarsi dall’imbarcadero poi è ripartito a razzo con una virata da off shore. Il guaio è che ha fatto male i calcoli. La poppa ha preso in pieno il pontile e a bordo c’è stato il terremoto. Alte le urla di una sfigata che si è ritrovata un sopracciglio spaccato da una gomitata. Siamo sbarcati e tutti in pullman alla ricerca della Guardia Medica. Poco più di un’ora, poi di nuovo sulla strada di casa. Un paio di giorni fa le insegnanti della Scuola materna hanno organizzato una manifestazione allo stadio. Una specie di spettacolo ginnico, si fa per dire. Bambini dai tre ai cinque anni, attenti, impegnati, ansiosi di far bene. Le magliette bianche si muovevano ordinate, contro il verde del prato, i gruppi assumevano forme diverse, come in un caleidoscopio. Ci ho messo un po’ di tempo, poi alla fine ho scorto i gemelli di mio figlio. Facevano la loro parte, come gli altri. Saltavano, si rotolavano, si infilavano in tunnel di cartapesta, ciascuno aspettando disciplinatamente il proprio turno. D’un tratto mi sono reso conto che stavo osservando l’aspetto più bello della razza umana, l’età in cui si può essere ancora innocenti ed entusiasti. E allora sono diventato spettatore attento, commosso, ma anche un po’ angosciato. Lo sappiamo tutti. I bambini sono condannati a crescere. Ma cambiamo argomento. Alle domande retoriche e prive di significato di Mazzocchi ormai sono abituato, ma il fatto che si continui a dare per scontate le vittorie dell’Italia su squadre di caratura inferiore rimane sempre un discorso da idioti. Mazzocchi e altri hanno la memoria corta. 1966, Corea del Sud – Italia 1-0. In tempi più recenti anche l’altra Corea ci ha sbattuti fuori dal Campionato del Mondo. Un arbitraggio scandaloso va incluso nelle possibili varianti e i giornalisti dovrebbero esserne al corrente. Di conseguenza viene da chiedersi perché ci godano ad aumentare la pressione nell’ambiente della nazionale. Le stronzate non fanno parte del diritto all’informazione. I neozelandesi sono gente tosta, avversari ostici nella vela, imbattibili nel rugby. Di certo non lasceranno il campo senza aver ammaccato qualcuno e speso fino all’ultimo millilitro di ossigeno. Il sospetto, se poi le cose vanno male e c’è da dire di più, da criticare di più e da recriminare all’infinito, è che la stampa e i media ci vadano a nozze. Un dieci a Lippi, che li ha ostentatamente ignorati nel 2006, quando non li ha mandati a quel paese andandosene nel mezzo di qualche intervista, e continua tuttora a non filarseli neanche di striscio. Delle immagini televisive di questo Campionato del Mondo sudafricano, comunque vadano le cose e quali che siano i risultati, rimarranno indelebili le lacrime di un giocatore schierato in campo con la propria squadra al suono dell’inno nazionale. In questo mondo di ordinaria indifferenza, mi scuso ancora per il calco, ma mi piace davvero tanto, c’è di che essere sconcertati. Il guaio è che è lo stesso sconcerto a generare sconcerto, perché se vivessimo invece in un mondo di ordinaria umanità, non proveremmo altro che una sana commozione. Ho scritto, più sopra, che i bambini sono condannati a crescere, ma dopo quelle lacrime è lecito supporre che anche per loro ogni tanto ci sia un indulto, o la solita amnistia.

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