martedì 8 febbraio 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Martedì, 1° giugno 2010
Ci sono voluti milleseicento anni, ma pare proprio che agli inglesi sia venuta nostalgia dell’antica Roma. Credo di aver già scritto di una cittadina dove gli abitanti sono disposti ad autotassarsi per dissotterrare un teatro romano, che pare sia immenso, almeno quanto il Colosseo, ma anche a livello ufficiale si fanno le cose in grande. C’è di mezzo il British Museum, un fiorire di opere letterarie e dibattiti alla televisione, più una spettacolare fiaccolata lungo le rovine del Vallo di Adriano, per centoventi chilometri. Dico, centoventi chilometri di fiaccole. E’ difficile credere che gli inglesi possano sentirsi in debito con qualcuno, in questo caso con la civiltà Romana, ma senza dubbio ne hanno ricevuto un notevole spintone per uscire dal disordine civile e dalle lotte tribali e ad acquisire quel caparbio senso di nazionalità che li avvolge tutti come una seconda pelle. Se Bush avesse attinto alla storia antica, si sarebbe risparmiato tanti guai. La civiltà si può esportare, la democrazia, no. Oggi soffiava una Scirocco robusto e ho provato la vela per almeno quattro ore, senza risultato. L’ho alzata e abbassata sull’albero, allungata e accorciata sul pennone, le ho mandato una selva di accidenti. Niente bolina. E’ solo una stronza vanesia che infonde speranza e rifila bidoni. Dovrò trovare il modo di arretrare l’albero, ma ormai se ne riparlerà fra qualche giorno. Per domani e dopodomani è previsto l’ombrello. Dovrebbe esistere un altro tipo di ombrello, molto più grande e resistente, che ci protegga dalle notizie di cronaca che ci piovono addosso come una grandine continua e inarrestabile. Abbiamo il progresso, abbiamo Internet, Facebook, Youtube, l’orizzonte della comunicazione è solo un ricordo, abbiamo Skype, condividiamo momenti di intimità con amici, spesso con le nostre stesse famiglie dall’altra parte del mondo, quasi tutte le informazioni che ci servono le troviamo sul web, ma allora, se non è una condanna per un peccato originale che probabilmente non ci è stato del tutto perdonato, cos’è che costringe questa esecrabile razza umana a smerdare tutto quanto di buono, di veramente utile, di incredibilmente ingegnoso riesce a produrre? Non parliamo dell’energia nucleare o ci balzano alla mente Hiroshima e Nagasaki, non parliamo dell’energia degli idrocarburi, che è come parlare di guerre e stragi senza fine, che ci fa venire la pelle d’oca al pensiero di quei poveri disgraziati in Louisiana, e non solo loro, che stanno per essere sommersi da una marea nera, viscida e distruttiva, che la BP, dopo averla scatenata, pare per una leggerezza nei controlli, non ha ancora la più pallida idea di come arrestare. Ormai ci hanno abituati a pensare in grande, in modo globale, ma fanno ugualmente paura le migliaia di barili di quella viscida massa nera stanno annientando ogni forma di vita sottomarina e minacciando la sopravvivenza della razza umana. C’è da chiedersi se non ci sia un virus che si insedia nel nostro cervello insieme al primo spermatozoo che riesce ad aprirsi un varco e a penetrare nell’ovulo. Il malessere, dunque, prodotto dal virus, funzionerebbe all’incirca come quello sofferto dal mitico re della Frigia, che aveva ottenuto dagli dei il dono di tramutare in oro tutto ciò che toccava, senza rendersi conto che tale potere gli avrebbe perfino impedito di cibarsi per sopravvivere. In parallelo, il virus degli umani avrebbe il potere di tramutare in merda tutto ciò che passa loro per le mani, si tratti pure di scoperte o invenzioni epocali. Quando re Mida si rese conto che con l’avidità, insita nel suo desiderio, si era guadagnato una maledizione, chiese perdono ad Apollo e ne fu liberato. Per quanto ci riguarda, purtroppo, non abbiamo un Apollo a cui chiedere perdono. Se il virus si insedia nel nostro cervello già prima della nascita, non abbiamo colpe, se non quella di volerlo ignorare e non darci da fare convulsamente per attenuarne gli effetti. Lo studio del virus dovrebbe essere la prima preoccupazione dell’umanità ad ogni latitudine, con la segnalazione di ogni sintomo fin dalla tenera età. Si dovrebbe cercare di capire meglio, senza trovare appoggio in scuse alla moda, perché un ragazzo di diciassette anni fa uso di Facebook per annunciare di avere schifo della vita e chiedere di essere ricordato dopo il suicidio, o il motivo per cui un quattordicenne senta il bisogno di fare uso di face book per mettere alla berlina un’insegnante e poco dopo si getti dal quarto piano per non dover fare fronte ai richiami del preside e ai rimproveri dei genitori. Come si potrebbe tentare di combattere le deviazioni indotte dal sospetto virus nei giovanissimi, quelli che, in caso di sopravvivenza, potrebbero anche diventare alti dirigenti di multinazionali come la BP? Un paio di idee ce le avrei ma è solo un suggerimento. Il primo passo potrebbe essere quello di impiccare i buonisti, tutti, dal primo all’ultimo, a qualsiasi latitudine e di ogni nazionalità. Forse impiccarli sarebbe esagerato. Basterebbe relegarli in una qualche isola dei famosi, in competizione per il cibo, l’acqua e un riparo per la notte, per dar loro il modo di scoprire quanto sono buoni davvero. Il secondo, introdurre in ogni scuola una nuova materia, molto più importante della matematica, delle lingue straniere e di ogni altra, da seguire dalla prima elementare all’ultimo anno di università, con obbligo di corsi di specializzazione post-lauream. Fondata sul principio che ogni nostra azione ha effetto prima su noi stessi, poi, inevitabilmente, su ciò che ci circonda, si potrebbe chiamarla Il senso di responsabilità verso sé stessi e verso gli altri. Questo, se l’espressione “senso di responsabilità” avesse ancora un senso

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