giovedì 8 luglio 2010

Martedì, 23 febbraio 2010. Questa mattina sono passato vicino alla clinica, non occorre il nome perché ce n’è una sola, e mi è caduto lo sguardo su una scritta mai vista prima. Servizio odontoiatrico. Sapeva di strano. Per gli studi dentistici privati di solito viene indicato il nome dello specialista preceduto dal titolo e dalla professione, su questo cartello, invece, brillava un insolito anonimato. Una nuova struttura sanitaria? Oggi bisogna vivere informati, ci sono più garanzie di sopravvivenza. Mia moglie la pensa come me e telefona alla clinica per chiedere spiegazioni. Il servizio odontoiatrico momentaneamente non risponde, ma la signorina al telefono non è di quelle arcigne e gentilmente le fornisce il numero diretto. Non risponde. Riproviamo un paio di volte in mattinata, con lo stesso risultato. Rifacciamo il numero nel pomeriggio, quando capita di passare davanti al telefono, una diecina di volte fra me e mia moglie. Nessun segno di vita. Fanculo. Oggi ho approfittato del sole per andare a fissare questi cazzo di occhielli. Per lo strallo. Il problema è che non c’è spazio per la mano, sotto, per far passare la vite e tirare il dado. Cerco di cavarmela tirando su la vite con un filo. Arriva il vento, d’un tratto, e si mette a rompere i coglioni cercando di intrecciarmi il filo fra le mani. Alla fine riesco a fare il nodo al punto giusto, tiro e dopo qualche tentativo la vite passa. Funziona. Ne metto una seconda, poi arrivano un paio di nuvoloni e si mette a piovere. Altro fanculo, recupero gli attrezzi e torno a casa. La mia vita non fila per il verso giusto. Troppi fanculo. Sarà il caso di contare quanti ne sforno in una giornata e portare la somma allo psicologo. Dico allo psicologo in senso generale, perché non ne conosco. Però, ripensandoci, potrebbe essere troppo impegnativo. Esagerare con i fanculo va ascritto a un qualche trauma? Di certo mi chiederà perché ho deciso di farmi visitare, e io che gli dico, che ho sfornato una cinquantina di fanculo nel corso di una giornata? Di certo suona riduttivo, ma non mi viene in mente nient’altro e se mi chiede come il problema influisce sulla mia vita, peggio ancora. Forse potrei dirgli che mi deprime vedere ridotte le mie capacità espressive. Mi chiederà delle paure che scaturiscono dal mio problema, e cosa gli rispondo? Che non lo so e devo pensarci. Vorrà anche sapere se il mio fastidio mi crea delle contrarietà, dei problemi, e anche in questo caso dovrei rispondere che non lo so e devo pensarci. Dopodiché, vorrà anche sapere che cazzo ci sono andato a fare, da lui. Sgradevole epilogo. Meglio soprassedere e lasciare che i fanculo folleggino la notte e il dì nei miei pensieri. Tanto, difficilmente mi scappano di bocca. Sono uno sproloquio tutto interiore. Non si tratta del monologo interiore, per intenderci, né del cosiddetto flusso della coscienza. Quella è roba da letterati con la elle maiuscola, parliamo di Virginia Woolf, di James Joyce, scrittori che hanno trasformato la semplice narrazione in un fatto molto più intimo. Più che agire, i protagonisti pensano, parlano con sé stessi, riflettono, fanno riferimenti al proprio passato, ad altre opere letterarie, con il risultato che per capirli, specie Joyce, ci vogliono almeno quattro lauree e tanto spirito di sacrificio. La popolazione studentesca, in genere, li detesta visceralmente. Però sono illuminanti. Prendiamo Virgina Woolf, con il suo monologo interiore. I pensieri non subiscono arresti, si inseguono, si modificano, dialogano nella nostra mente senza un attimo di sosta e influiscono sul nostro comportamento. Se chiedi la strada per la stazione a uno che sta pensando a qualcosa di bello, la sua ragazza, una bella amicizia stretta da poco, una vincita alla lotteria appena riscossa, insomma, in un momento in cui il suo monologo interiore gli manda stimoli gradevoli, allora non solo ti indicherà la strada, ma sarà pure tentato di accompagnarti in macchina. Se ti risponde in modo sgarbato, invece, può dipendere da un monologo interiore molesto. Chiaro? Quanto al flusso della coscienza, che è qualcosa di simile ma riguarda più Joyce, meglio spiegare che non si tratta della coscienza che distingue tra il bene e il male, che talvolta fa insorgere rimorsi, che induce a liberarsi di grossi rospi attraverso sorprendenti confessioni, niente di tutto ciò. Si tratta dello stato cosciente come opposto di uno stato non cosciente. Insomma, i sogni contano solo se si fanno a occhi aperti. Tutto qui. Gli scrittori possono essere gente strana, ma gli editori sono ancora più sorprendenti. Adesso puntano sulle carceri come fucina di nuovi scrittori. I carcerati potranno concorrere a premi letterari scrivendo le loro biografie. Pare che la prigione induca al pensiero, alla riflessione, a prendere coscienza della propria vita interiore, perciò c’è da aspettarsi grandi cose. Gli organizzatori non hanno dubbi in proposito. Potrebbero anche avere ragione. Però essere esclusi da un concorso per non aver mai rapinato una banca, scippato una vecchietta o ammazzato qualcuno può lasciare perplessi. Verrebbe quasi voglia di adeguare il curriculum, ma tra patteggiamenti, interrogatori dal GIP, dal GUP e udienze a intervalli di mesi, in prigione neanche ci finiresti entro i termini stabiliti dal bando.

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