venerdì 9 luglio 2010

Venerdì, 26 febbraio 2010
Ieri ho ripreso il lavoro alla barca. E’ un lavoro scomodo e ci vuole tempo, e pazienza, tanta. Comunque, sono più che a mezza strada. Finirò il lavoro la prossima volta che ci vado, è sicuro. Il difficile è sapere quando sarà la prossima volta, perché ieri sera mi è riesploso un raffreddore che sembra voglia squagliarmi il cervello e farmelo uscire dalle narici. Naturalmente è tornata la tosse. Apparentemente dopo gli antibiotici si era solo sopita, infatti la riconosco. Sale da profondità insondabili e inesplorate del torace, e ad ogni colpo i miei organi, tutti, dalle tonsille fino al colon, subiscono uno scossone tremendo che rischia di metterli fuori uso. Qualche giorno dopo che la febbre era sparita, avevo creduto di poter uscire senza berretto. Avevo creduto male. Troppo presto. Stamattina sono andato al consorzio medico. La mia doc era superprenotata, perciò mi sono fatto visitare da un altro. Mi ha auscultato e ha detto che quello che sentiva non era niente di buono e che se non si provvedeva in tempo rischiavo una bronchite epocale. Dieci compresse di antibiotici. Dieci. Gli faccio presente che mi sento già uno straccio e queste mi ridurranno ancora peggio. Nessuna compassione e niente sconti. Bravo. Il medico pietoso fa la ferita purulenta, si dice. Meglio uno spietato. A proposito di medici, che cazzo sta succedendo alla categoria? Pare che gli ospedali siano diventati luoghi pericolosi. La gente ha paura. Si entra sani, o quasi, e si esce distesi dentro una bara senza uno straccio di spiegazione. C’è un sacco di gente, qua e là per l’Italia, che vuole sapere il perché. Mogli che vogliono sapere il perché di una vedovanza a sorpresa, genitori che vogliono sapere perché un figlio sano è stato dimesso da morto, persone che vogliono sapere il perché di familiari improvvisatisi estinti. Le procure rigurgitano di denunce, fioccano le autopsie e i sequestri di cartelle cliniche e, naturalmente, a conclusione di tutto, milionarie richieste di risarcimenti. Per quanta fiducia si voglia conservare nei medici, va detto che le cronache ospedaliere non aiutano. Bambina ricoverata in ospedale con frattura al braccio sinistro esce ingessata al braccio destro, o viceversa, e per fortuna non si era trattato di un’amputazione, forbici “a ricordo” nello stomaco di una donna, o nell’intestino, individuate a quindici anni di distanza dall’operazione, malgrado ripetute visite a causa dei forti dolori. Mi viene in mente una barzelletta . Veniva chiesto a un tizio dove era morto suo nonno e il tizio rispondeva che era morto a letto, poi gli veniva chiesto dove fosse morto suo padre e il tizio di nuovo rispondeva che era morto a letto e infine gli veniva chiesto come avesse ancora il coraggio di andare a letto. Sarebbe sufficiente sostituire il letto con l’ospedale e la storiella conserverebbe, più o meno, lo stesso humour. Oggi, però, non farebbe ridere. Anzi, in vista di un ricovero, potrebbe anche mettere in agitazione. Dopo tutto, in un paese dove si sputa sul merito poteva anche andare peggio. Sulla mia laurea non risulta il centodieci che mi sono sudato mentre lavoravo, sposato, due figli intervallati con gli esami, perché non si riteneva giusto umiliare coloro che avevano conseguito risultati inferiori, coloro che fra l’altro non lavoravano e non avevano un cazzo di problema, una famiglia, per esempio. In virtù di una considerazione così altamente umanitaria, il voto è stato eliminato da tutti i fogli di laurea. In un paese dove si sputa sul merito, dicevo, e dove si lascia che certe regole vengano imposte da emerite teste di cazzo, non ci si può meravigliare di niente. Neppure che in una categoria di così vitale rilevanza, accanto a professionisti e scienziati di fama internazionale che sono un vanto per tutti, possano coesistere elementi inquinanti e irresponsabili che sono una disgrazia per tutti. Il trend è ancora in vigore e non accenna a cambiare. Di fronte alle difficoltà, aumentare l’impegno, suona arcaico, obsoleto. Molto meglio di fronte alle difficoltà, eliminare le difficoltà. Nella scuola ha funzionato così per decenni. La grammatica era difficile, nei testi di lingue straniere veniva quindi eliminata, se ne lasciava una rapidissima sintesi solo come alibi per non essere svergognati. I programmi di matematica, ignobilmente impegnativi nei licei scientifici, venivano spolpati come cosce di pollo, ridotti all’osso, per gli esamini colmadebiti veniva ritagliato uno scampolo dal programma annuale, insomma, guai a parlare di maggiore impegno. La parola d’ordine: eliminare o almeno ridurre, ma in modo sensibile, le difficoltà. Tutti bravi e meritevoli. Ma non si può essere meritevoli tutti allo stesso modo, perché c’è sempre qualcuno che lo è di più o meglio che lo è davvero. Sono quelli che si incazzano, perché vorrebbero affrontarle le difficoltà, e imparare quanto spetta loro di diritto. Ci sono cascato di nuovo. Troppo serio, quasi serioso, diociscampi. Ma vale davvero la pena di incazzarsi, mettere in subbuglio le arterie, rischiare l’ictus, l’infarto e l’aritmia, solo perché la madre delle teste di cazzo è sempre gravida? E ancora, come si fa ad essere sicuri che la nostra prospettiva non sia ingannevole? Chi ci assicura di non essere noi le teste di cazzo visto che un fiume scorre dall’alto in basso per dei buoni motivi e che mettersi in testa di invertirne il corso è roba da matti? Meglio ricorrere alla filosofia del Tao, i cinesi la sanno lunga. Restare immobili, osservare, imparare. Il tempo ci insegnerà la via.

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