venerdì 27 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Venerdì, 19 marzo 2010
Alla scuola media, quando ero impegnato in certi esercizi di matematica, non vedevo l’ora di poter scrivere la sigla cv.d., con tutto il sollievo che ne derivava. Come volevasi dimostrare, punto e fine dell’esercizio. Il c.v.d. di oggi riguarda l’aggettivo famous che precede last words. Perché le ultime parole restano famose? Perché esprimono promesse mai mantenute. Come volevasi dimostrare, infatti, stamattina sono stato impegnato con mia moglie e della barca mi sono perfino dimenticato. Ho cercato di recuperare nel pomeriggio, ricurvo a novanta gradi sotto il basso terrazzo sul giardino, dove sono accatastati residui di tanti anni di vela spartana, remi spaiati, mezzi timoni, cime, pennoni, vecchi alberi di legno e alluminio, vecchie vele e fiocchi, paioli disastrati e quant’altro di vecchio si possa immaginare. Ho sfilato un pennone dal mucchio, quattro metri e trenta, e l’ho misurato con il lato più lungo del telone. Sapevo già che era di cinque metri, perciò avrei dovuto tagliarne una buona parte. Ho ripiegato il telone in basso e sulla diagonale, secondo le misure, e grossomodo è venuta fuori la vela, cioè un’idea della vela. Tutto sommato, poteva anche andare, avrebbe preso vento a sufficienza. Però sarebbe stato come andare in bicicletta, mentre, impiegandola per tutta l’altezza, mi sarei avvicinato a una moto. Cambiare il pennone, ce ne vuole uno una sessantina di centimetri più lungo. Di nuovo piegato come una squadra sotto il terrazzo, individuo un lungo tubo di metallo che a suo tempo avevo già usato come pennone, molto impropriamente, devo aggiungere, perché non aveva resistito allo sforzo e si era curvato. L’ho raddrizzato, l’ho misurato con il lato del telone e vanno d’accordo come culo e camicia. Per un paio di prove andrà bene. Poi mi sono accorto che gli occhielli sul lato del telone erano troppo distanti. Tentazione immediata di rimandare a domani. Per una strana forza d’inerzia accartoccio invece il telone in macchina e lo porto a una parente che ha un negozio di lingerie, dove vendono pure ago e filo, nastri e articoli del genere e hanno pure una macchinetta per gli occhielli. Ci trovo una ragazza che mi aiuta con fatica a districare il telone e a trovare il lato giusto. Mi aspettavo che mi mandasse a quel paese, invece mi dice di ripassare in serata. Per oggi, non c’è altro che possa fare. Se ne riparla domani. Prima di risalire in macchina, ho incontrato due ragazzi. Ho insegnato a entrambi, erano nella stessa classe e ora sono negli stessi guai. Si sono sposati. Mi hanno parlato dell’Etiopia, in particolare di Lalibela, una città santa che gli etiopi hanno costruito sulle montagne. Non adesso, naturalmente, anche molto prima che gli italiani andassero a rompere i coglioni a quella gente, che combatteva con le lance contro fucili e mitragliatrici. Per ogni nostro soldato che cadeva, loro ne perdevano dieci. Malgrado ciò, non si sono mai arresi. Sarò un codardo ignorante, ma non mi sono mai sognato di andare in Africa, un po’ per paura dei terroristi islamici, un po’ per non fare la fine di Coppi, che dopo tanta gloria è morto per la puntura di un insetto, e un po’ anche sconsigliato da Hemingway, quando scriveva che andava a caccia con le zanzare che gli ronzavano fin dentro le mutande. Lo so che mi perdo un mondo fantastico, ma ognuno ha il diritto di vivere come e dove gli pare. Quei due ragazzi erano tanto entusiasti di raccontare, che sono riuscito a dimenticare il mio Mal d’Africa a rovescio e sono rimasto ad ascoltarli. Mi ha colpito il fatto che Lalibea sia stata una delle prime roccaforti del Cristianesimo, dico, parliamo del tredicesimo secolo, e non so quanta gente l’abbia mai sentita nominare. Le chiese non sono state costruite elevandole dal suolo verso il cielo. Al contrario, sono state scolpite nel tufo a partire dal tetto. Una volta terminato l’esterno, una sorta di immensa scultura architettonica, è stato scavato l’interno. Insomma, ogni chiesa è un monolite. Malgrado i cristiani del luogo siano copti, i due giovani sposi hanno voluto assistere a una messa. All’ingresso hanno ricevuto un bastone. L’hanno preso, chiedendosi cosa avessero dovuto farne, poi si sono accorti che tutti i fedeli ne avevano uno. Il perché del bastone lo hanno capito tre ore dopo, quando la messa non era ancora finita e da un pezzo avevano notato che non c’erano panche né sedie. Li ho salutati con una gran voglia di farci un salto, a Lalibea. Malauguratamente si trova in Etiopia e l’Etiopia sta in Africa e in Africa ci sono le zanzare che ti ronzano nelle mutande e arrivano a pizzicarti le palle.

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