mercoledì 16 novembre 2011

diario di un qualsiasi nessuno

16 novembre 2011. I trenta minuti sono trascorsi, ho invitato anche i miei amici di Facebook a intrattenervisi, spero che li abbiano trovati interessanti. A me sono serviti per togliermi dalle dita la ruggine dell’inoperosità. Mi pare di aver già scritto, tempo addietro, di essere arrivato a metà del mio ultimo romanzo, di averlo poi trascurato per una serie di ragioni e di essermi ritrovato nel buio più fitto quando ho provato a rimetterci le mani. Non riconoscere i personaggi e non ricordare l’altra metà dei loro destini è stato deprimente. Sentivo anche la loro delusione. Le dita sembravano non riconoscere la tastiera, non essere più in grado di produrre dialoghi e descrivere situazioni. Depresse anche loro, come me. Chi scrive è come un atleta, deve tenersi allenato, sempre in forma. L’unico rimedio era riprendere gli allenamenti, scrivendo un paio di brevi racconti thriller poco impegnativi. Devo dire che ha funzionato. Quando ho rimesso le mani sul romanzo (che mi sono dovuto rileggere tre o quattro volte, riempiendo quattro o cinque fogli di annotazioni), i personaggi sono emersi dalle fitte nebbie in cui li avevo lasciati sprofondare e hanno ripreso a vivere. Hanno continuato a farlo, alcuni anche pericolosamente, per un altro centinaio di pagine, affidandomi di nuovo l’incarico, benché non lo meritassi, di raccontarne le vicende. Siamo all’ultimo capitolo, sta accadendo qualcosa di molto grave. Aspetto gli eventi con le dita sulla tastiera. Ho trascurato anche il mio diario, benché ad esso sia molto affezionato. Dopo quanti mesi ho ripreso a scriverlo? Basterebbe contarli, a partire dal 30 settembre del 2010, ma meglio non farlo. Sarebbe come scandire il tempo e non è mai incoraggiante. Che ho fatto in questo lungo periodo, un giorno dopo l’altro? Sicuramente avrò gioito, mi sarò incazzato e avrò avuto momenti sereni o insignificanti. Il fatto è che se mi sforzo di ricordare, mi si impigrisce il cervello e mi sento vorticare dolcemente nel vuoto. Niente. Sarà meglio riassumere per argomenti. Cominciamo con la barca nuova, si fa per dire, cioè quella comprata di seconda mano dal mio amico pittore. Di certo avrò già scritto che anni fa mi è stata regalata una vela latina bellissima, policroma, alta sette metri. Ho voluto provarla sulla mia barca di quattro, ma non sono riuscito a trovare una trave lunga a sufficienza per ricavarci un pennone. Mi sono arrangiato inserendo tre tubi metallici uno nell’altro fino a raggiungere i sette metri necessari. Ho finalmente issato la magnifica vela. Con poco vento sembrava cavarsela discretamente, tanto da rendermi moderatamente soddisfatto, ma proprio mentre rientravo, un colpo di grecale improvviso, del tutto imprevisto e spietato si è scaricato sul pennone metallico piegandolo come un bastoncino di liquerizia. Collaudo finito. Male. Non ho potuto che ammainare tutto e rientrare con il fuoribordo. A terra ho provato a dare una raddrizzata al pennone, chiamiamolo così, ma provare a riutilizzarlo sarebbe stata follia. Nei giorni seguenti ho ispezionato le varie, enormi e polverose rivendite di legname finché non ne ho scovata una provvista di travi di dodici metri in legno lamellare, dove erano perfino disposti a segarmi un troncone di sette metri. Per un attimo ho creduto di esserne venuto a capo. Purtroppo, però, se a una soluzione è legato un problema, non si tratta di una vera soluzione. Nella fattispecie, il problema era il trasporto, visto che non potevo azzardarmi a usare il portabagagli della mia Opel Corsa senza correre il rischio di far incazzare la stradale, con tutte le conseguenze immaginabili. Il venditore, da parte sua, non poteva far muovere un furgone per quella insignificante, sparuta consegna. L’ho pregato di includerlo, all’occasione, nella prima consegna di altro materiale a un indirizzo vicino al mio, o qualora il mezzo fosse passato da quelle parti. A suo comodo, senza fretta. Ha accettato di malavoglia, ma ha preso i soldi, lasciandomi intendere che era solo un mezzo impegno. Meglio che niente. Ho tirato in secca la barca, rinunciando momentaneamente alla vela latina, e ho rimesso in mare il quasi Fly Junior con randa e fiocco. Barca obbediente, con qualsiasi vento, con qualsiasi corrente. Il guaio è che ha più di quarant’anni e ci sono punti in cui la vetroresina si è fatta cartone. L’ho scoperto quando ci ho fatto un buco, puntando i piedi scalzi per cazzare la vela, con l’alluce del piede destro. Da allora, nelle giornate ventose, cerco di non pensare agli attacchi delle sartie e dello strallo e dopo aver attraccato vado sempre a darci una sbirciata. Ci ho passato tutta l’estate ed è stata comunque un’ottima compagnia. Disponibile alle manovre e divertente, specie quando guadagni mare a sufficienza da poterti permettere di scorrazzare con il vento sul giardinetto. Un razzo. Un’andatura che sconsiglia di pensare agli attacchi delle sartie, dello strallo e delle condizioni dello scafo. Non ci si può preoccupare di tutto. A settembre inoltrato, quasi ottobre, sono tornato dal rivenditore di legname senza più speranze. Mi ha restituito i soldi e abbiamo chiuso la faccenda. Però non ho rinunciato del tutto alla vela latina.

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