sabato 29 maggio 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

4 febbraio 2010
Ho ritirato i referti delle analisi, un papiro di un metro e mezzo, e domani dovrei avere anche il referto da Radiologia. Sempre che le RAV, Radiografie ad Alta Velocità, siano leggibili. Speriamo. Altrimenti la doc s’incazza e mi rispedisce nella spelonca a spiegare all’urlatrice che ha ecceduto in velocità e che deve riprovarci con una marcia in meno. Non voglio nemmeno pensarci. Il 2010 è cominciato alla grande. Da quasi un mese sono relegato in casa per colpa di una bestiaccia invisibile non ancora identificata. Oggi niente febbre. Spero che gli antibiotici si siano dati da fare e l’abbiano disintegrata, ma prima di gridare vittoria e avventurarmi in strada voglio sentire la doc. Domani. Al termine di questa vicenda, almeno spero che siamo al termine, sono calato di almeno cinque chili e ho ridotto il fumo da dodici a due sigarette al giorno. Un sacco di gente avrà iniziato l’anno piena di buoni propositi. In genere vogliono diminuire di peso, ridurre o eliminare le sigarette, liberare qualche virtù nascosta. Il fatto che tali urgenze si manifestino solo all’inizio dell’anno, però, mi lascia perplesso. Chi ha detto che i buoni propositi debbano partire dal primo di gennaio? Perché non all’inizio di un mese qualsiasi, di una settimana qualsiasi o in un giorno qualsiasi? Ma, poiché viviamo in giorni di ordinaria idiozia, non c’è da meravigliarsi se una selva di studiosi, psicologi, esperti e tuttologi si siano interessati dell’argomento e lo abbiano sviscerato in opere scientifiche basate su interviste a campione, dalle quali scaturiscono precise percentuali e regole sicure. Ne consegue che i buoni propositi di Capodanno non sono facili da realizzare e che almeno l’80% sono destinati a fallire. Secondo gli esperti, questo accade a chi si mette in testa di resistere a ogni singola tentazione. Meglio cedere e accontentarsi, a volte, se si vuole entrare in una percentuale di successo almeno parziale. Chi l’avrebbe detto? Ma si può fare di meglio. Se si annotano i progressi in un’agenda e si propagano i buoni propositi a una cerchia di amici, allora si vede la percentuale del successo salire significativamente. Tenere un diario, informare gli amici, la paura di figuracce in caso di insuccesso, decidere a quali tentazioni resistere e a quali no, verificare i risultati, che razza di vita sarebbe? Poveracci. Forse dovrei pubblicare un libro e intitolarlo

Come calare di cinque chili
e ridurre il fumo da dodici a due sigarette al giorno
in un mese.

In questo mondo di ordinaria idiozia, scusate se mi ripeto, ma è un calco talmente stimolante, ne verrebbe fuori un best-seller. Anche se non sarebbe una gran consolazione, per uno che ha scritto cinque romanzi e non se ne è visto pubblicare uno, pure non sarebbe da buttare . Un best seller è un best seller, fosse pure intitolato Sesso e partenogenesi. Riguardo alla mancata pubblicazione dei miei romanzi, occorre fare qualche precisazione. Nel mondo dell’editoria c’è qualcosa di strano. Vi dico subito che non perderò tempo a parlare dei ghost writers, cioè di giovani scrittori sconosciuti, pagati quattro soldi, che scrivono fior di romanzi per altri, sedicenti scrittori, figure note magari per aver vinto un quiz, aver sparato a qualcuno o essersi mangiato un cavallo, che hanno la faccia di apparire in televisione come i veri autori. Il qualcosa di strano a cui mi riferisco è che oggi le proposte di pubblicazione, da parte delle case editrici, fioccano, ma all’autore non vengono offerti solo un contratto di vendita dei diritti e una percentuale sugli incassi. All’autore viene sfacciatamente richiesto di acquistare, per proprio conto e a prezzo pieno, cento, duecento o anche trecento copie, cioè più della metà dei libri pubblicati. Si parla di 2.000, 3.000, 4.000, 5.000 Euro, che non potranno mai essere recuperati con i diritti d’autore, data l’esiguità della tiratura e la pochezza della distribuzione. Concluso l’affare, l’editore ha già avuto il suo guadagno e allo scrittore resta solo da fare spazio a qualche scatolone zeppo di libri che non venderà mai. Siamo alle soglie dell’inverosimile. Vendere i romanzi agli stessi autori. Per quel che mi riguarda, dopo aver ricevuto una serie di proposte del genere, ho smesso di inviare i miei alle case editrici. Non mi frega più neanche di sapere se valgano qualcosa. Li lascio nel computer, tanto non danno fastidio a nessuno.

martedì 25 maggio 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

3 febbraio2010
Ho tenuto duro finché ho potuto, ma dopo venti giorni di febbre e di tosse secca, rabbiosa, con fitte micidiali alla gabbia toracica ogni volta che provavo a riprendere fiato, dopo venti notti passate allo stesso modo, anzi peggio, con la tosse ancora più secca e più rabbiosa, con le costole in rovina e fitte ancor più micidiali, con una voglia di dormire che gravitava nell’area di mission impossible, alla fine ho capitolato. Con la cura contro l’influenza, letto, lana e tanta pazienza, ci sono andato avanti una vita. Rimedio della nonna o no, me l’hanno insegnato da piccolo e me la sono sempre cavata in cinque o sei giorni. Mai un’aspirina, mai un antibiotico. Naturalmente tutto ciò mi ha conferito una reputazione da primitivo, da selvaggio, una sorta di Neanderthal mai estinto. Ma dopo un po’ perfino mia moglie si è rassegnata. Stavolta deve trattarsi di qualcos’altro. Di qualsiasi bestiaccia virulenta si tratti, questo figlio di puttana è uscito dal buco del culo del mondo per venire da me con propositi di annientamento e devo dire che ce la sta mettendo tutta e mi ha ridotto uno straccio. Così, alla fine ho capitolato e sono andato dal dottore. Per la verità è una dottoressa, una persona intelligente. Non mi ha neanche chiesto perché non mi sono fatto vivo prima di ridurmi in questo stato. Mi ha prescritto cinque compresse di antibiotico e una sfilza di analisi da riempire uno di quei famosi rotoli che non finiscono mai. Domani vado a ritirare i referti. Nel frattempo ho finito la cura di antibiotici, è sparita la febbre e ho trovato uno sciroppo che tiene a bada la tosse. Il dolore alle costole sta sparendo e quasi non ci credo. Stasera niente antibiotico. Speriamo niente febbre anche domani o ricominciamo daccapo.
Tre settimane fa avevo pensieri di tutt’altro genere. Poi febbre, tosse, fitte alle costole, veglie moleste mi hanno travolto come una valanga. La vita può cambiare radicalmente, i desideri possono cambiare radicalmente, le priorità possono cambiare radicalmente. Dalla sera al mattino, da un momento all’altro, la commedia può volgere in dramma, il dramma in tragedia, la tragedia in fatalità. Questa è una riflessione seria, esistenziale. Ogni tanto ci casco. Meglio non approfondire. Vediamo quali erano le mie priorità tre settimane orsono. La prima era di riuscire a sistemare gli occhielli per fissare lo strallo di prua. Agli occhielli per le sartie avevo già pensato il giorno avanti. Sto parlando di una barca, naturalmente, una barchetta di quattro metri in vetroresina che ho comperato da un amico e ho intenzione di attrezzare per la navigazione a vela. Timone, barra, deriva, vela completa di armatura, albero e pennoni, tutto pronto. Sistemare lo strallo era l’ultima operazione prima della prova generale in mare. Sentivo già la scotta scorrermi in mano. Invece la scotta se ne sta in un angolo del garage, ancora arrotolata, la vela non garrisce al vento, i pennoni sono rimasti in un angolo del cortile insieme al timone, alla barra, alla deriva, agli occhielli per lo strallo, mai sistemati, le mie priorità stravolte. Viene da chiedersi, che cazzo vuol dire vivere? Certamente non significa fare programmi. Ma allora bisogna anche chiedersi come si può vivere senza fare programmi e rispondere a questa domanda credo proprio che siano cazzi. Almeno fino a quando non sentiremo un impellente bisogno di scrivere le nostre Confessioni come Sant’Agostino. Scherza coi fanti e lascia stare i santi, mi ripeteva una monaca in epoche lontane, quando avevo smesso da poco di credere alla cicogna e frequentavo Catechismo dalle Suore della Riparazione. Per la verità non stavo scherzando, anzi, il riferimento alle Confessioni era molto serio. Spero che sia stato altrettanto chiaro, così posso evitare accuse di blasfemia lasciando in pace Sant’Agostino. Del resto, in questa nostra epoca di ordinaria delinquenza, siamo abituati a confessioni di altro genere, quelle dei criminali e quelle dei pentiti. Come abbiamo già visto, però, tutto cambia, e i cambiamenti sono tanto repentini che ti manca il tempo di notarli. Le confessioni dei pentiti, per esempio, sono cambiate. Pare che costoro siano diventati dei cavalli di Troia introdotti, bene accetti, nelle istituzioni, al solo scopo di raderle al suolo e di far strage di funzionari scomodi. Si contano già le prime vittime. Si conta di varare nuove leggi che li rendano meno pericolosi. Comunque vadano le cose, hanno indubbiamente perso molto del loro romantico appeal. Tout passe, tout lasse, tout casse, et tout se remplace. Vuol dire mettere nel conto i cambiamenti, tanto più dolorosi quanto più repentini. Ma c’è un messaggio aggiuntivo, destinato a chi soffre di eccesso di autoconsiderazione: nel grande libro della natura, alla fin fine, qualunque cosa ci capiti, i valori fondamentali riappaiono inesorabili, sempre gli stessi. E’ il modo in cui la natura ripaga noi piccoli umani della nostra immensa presunzione: L’indifferenza.

lunedì 24 maggio 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

3 febbraio 2010

Siamo alle solite. Entri in una struttura sanitaria felice come una pasqua e quando esci hai la bava e le corna, e anche se non hai incornato nessuno, hai tanta voglia di farlo. Nell’eventualità di crimini inspiegabili, senza uno straccio di logica o di movente, di improvvisi raptus che esplodono in sanguinaria violenza, la polizia dovrebbe sempre accertarsi che il colpevole non sia appena uscito da una ASL. In tal caso, nulla potrebbe più nascondersi dietro l’inspiegabile e tutta la vicenda si puntellerebbe su un indistruttibile rigore logico. Lo so che avete pensato che stessi dando i numeri, quando ho detto che entri in una struttura sanitaria felice come una pasqua, in primis perché se ci vai vuol dire che non stai bene e inoltre sai a cosa vai incontro e, meglio che vada, ti pioverà sul bagnato. Era solo per accentuare il contrasto. Licenza letteraria. La verità è che stamattina è toccata a me. Ho fatto un’ora di coda, naturalmente ho scelto la fila sbagliata perché quella accanto filava come un TAV, ho pagato il ticket e sono partito alla ricerca di Radiologia. Ricerca difficile. Ho percorso tutto il corridoio, letto il nome dei reparti a tutte le porte aperte e chiuse, niente Radiologia. Una dottoressa in camice bianco sfreccia veloce come le stelle nella notte di San Lorenzo, ma trova il tempo per un rapidissimo cenno verso una scala. Nessun cartello, ma di certo è nel seminterrato. Ci vado. Lo sportello è deserto. Gli utenti in attesa sono quattro, tutti anziani, e nel punto in cui si incrociano i nostri sguardi si forma un grosso punto interrogativo. Nessuno parla. Per fortuna ho pensato alle contromisure e ho portato il giornale. Vediamo. L’influenza A è stata incredibilmente benigna. Pochi i morti, in genere anziani che soffrivano di gravi patologie pregresse. Critiche ai governi che hanno speso milioni per i vaccini. Continua con le troppe spese per i vaccini. Mi pare che manchi qualcosa. Rileggo. Non manca niente, è una questione di stile. Infatti il significato di ciò che ho letto è il seguente: L’influenza A è stata incredibilmente benigna, infatti è morta solo gente anziana che aveva già gravi problemi di salute. Erano anziani, erano malati, si capisce che sono morti. Erano anziani, erano malati, a chi cazzo può fregare di meno se sono morti? Naturalmente il cronista non l’ha fatto apposta, anche perché scrive sempre di fretta. Però avrebbe potuto evitare l’errore. Sarebbe stato sufficiente immaginare un’intervista impossibile a ciascuno di quei disgraziati trascinati a forza nella fossa dall’AN1H1 e rivolgere loro una sola domanda –E’ contento che questa tanto temuta influenza A si sia rivelata così incredibilmente benigna?-

Sento gridare. I quattro in attesa sono diventati sei. Una signora sta davanti allo sportello e un’altra, in camice verde, sta gridando da dietro il vetro. E’ la tecnica di laboratorio. Vuole sapere se le ha consegnato un certo documento, l’altra non ne ha idea e lei continua a gridare. Finalmente si ricorda di non averglielo consegnato e la smette. La signora davanti allo sportello riprende fiato. La donna in camice verde si concentra su un elenco stampato che ha sotto gli occhi, probabilmente le radiografie che ha in programma. Ricomincia a scorrerlo di nuovo, ma stavolta lo fa imprecando contro ignoti e finalmente comincia a chiedere le impegnative. Quando gliela consegno, mi punta la penna in faccia e vuole sapere dove sono nato. Glielo dico in fretta, mentre mi scruta con l’aria di puntarmi addosso una pistola. Finisce di raccogliere le impegnative, poi sparisce. Mi rimetto a sedere e riprendo il giornale. Mi torna subito in mente l’intervista impossibile e penso a cosa potrebbe rispondere il morto. Ci metto un po’ di tempo, ma alla fine mi convinco proprio che il morto neppure gli risponderebbe, o lo manderebbe a quel paese o lo prenderebbe a calci in culo. Vengono chiamate un paio di persone, poi finalmente arriva il mio turno. La donna in camice verde mi fa accomodare in uno stanzino e mi dice di liberare il torace. Vista l’aria che tira, cerco di fare in fretta, poi rimango ad aspettare e comincio a sentir freddo. Siccome da una ventina di giorni ho una febbre inestinguibile e una tosse che sta cercando di spezzarmi le costole, mi incazzo. Un attimo dopo riappare come una farfalla e dice di scusarla perché deve vedere una lastra. Sorride perfino. Ho freddo. Passano un paio di minuti e riappare di nuovo imprecando per l’enorme accumulo di radiografie fra mezzogiorno e l’una. Però mi invita verso la macchina. Tanto per dire qualcosa, le dico di prendersela con calma. Non l’avessi mai fatto. Comincia a dare di matto e mi spiega, sempre smoccolando, di essere vittima di un complotto per mandarla a casa in ritardo rispetto a quelli del reparto accettazione. -E lei mi dice di prendermela con calma!- Me l’hanno già detto che il silenzio è d’oro, specie in certe occasioni, ma pare che ogni tanto una stronzata sia d’obbligo. Poco ci manca che la mandi a prendersela da un’altra parte, invece non dico più una parola, nemmeno quando mi lascia ad annaspare come un pesce preso all’amo.

-Un bel respiro!- mi fa. Eseguo e trattengo il fiato in attesa del secondo comando -Fermo!-, che non arriva, e non arriva neanche il terzo -può respirare!- Naturalmente aspetto un po’ poi riattivo i polmoni per motivi di sopravvivenza. Riappare dopo un paio di minuti con una fretta del diavolo. Ha l’aria soddisfatta. Pare che sia andata bene. Mi fa voltare di fianco e mi solleva le braccia sulla testa lasciandomi in una positura da Nureyev. –Resti fermo così-, e scompare. Passano venti secondi e poi -Un bel respiro!-, seguito da incombente silenzio. Stavolta però sono preparato e ricomincio a respirare dopo qualche secondo. Poi mi passa vicino con dei fogli in mano. –Venerdì il referto in portineria!- e sparisce insieme ai fogli. Due secondi e ha già ripreso a gridare da dietro lo sportello. Vado a rivestirmi. Tutto sommato, è andata bene, non sono neanche tanto incazzato, a parte un po’ di freddo. Per di più non avevo mai assistito al rapido smaltimento di radiografie accumulate in un orario indesiderato, in contrasto con la pausa pranzo. Roba da Guinness dei primati.