giovedì 30 dicembre 2010

diario di un qualsiasi nessuno

Domenica, 25 aprile 2010
Sono le otto di mattina e apro la porta di casa. Cielo sereno, suolo bagnato per qualche residua pioggia notturna. Una rondine disegna un arco intorno al fogliame della grossa quercia dall’altro lato della strada, poi vola alta. Buongiorno, domenica. Oggi è anche Festa della Liberazione. Tanti morti per spazzare via la tirannia di idealismi balzani. Ci hanno lasciato la democrazia. Che ne è stato fatto? Citando al volo, senza pensarci troppo, mi viene in mente Marcuse, l’abominio del ’68, le brigate rosse, il terrorismo nero, il terrorismo di stato, la scuola statale ridotta a un parcheggio, Grande Fratello, L’Isola dei Famosi e altre top share dello stesso livello, gli spot televisivi che hanno già rincoglionito diverse generazioni di italiani, la Mafia, la Camorra e la ‘Ndrangheta che poco ci manca assurgano al livello di istituzioni. Per fortuna la morte è generosa e lascia che gli eroi riposino in pace, ignari per l’eternità. Mi è tornata la tosse, quella schifosa, fottuta, fottutissima tosse. Per il momento non ho la febbre. Ho di nuovo ridotto il numero delle sigarette. Faticavo già a non superarne sette, ho dovuto ridurre a tre. Domani mattina devo telefonare al meccanico per il fuoribordo. Anche la settimana scorsa ho avuto bisogno di un meccanico. Appena entrato in una rotonda, ho sentito uno strano ticchettio e subito dopo un colpo e qualcosa di metallico trascinato sull’asfalto. Esco dalla rotonda, accosto e verifico. Marmitta staccata, struscia sulla strada ed è in procinto di staccarsi del tutto. Occorrerebbe legarla, per raggiungere almeno il meccanico. Non trovo una corda, per di più si è staccata all’interno e sarebbe un lavoraccio, da ridursi uno schifo. Il meccanico è a un paio di chilometri. Purtroppo non è la parte posteriore della marmitta a scivolare sulla strada, ma quella anteriore, che sfiora il terreno con il rischio di impuntarsi al minimo dislivello e spaccare tutto. L’alternativa è il carro attrezzi, ma siccome devo ancora estinguere il mutuo per l’auto, faccio gli scongiuri e mi avvio molto lentamente verso il meccanico. Da dietro, la marmitta a terra deve saltare agli occhi, perché la gente mi sorpassa senza sbraitare. Quando arrivo dal meccanico, scopro di aver fatto fuori due marmitte in un colpo solo. Almeno ho evitato il carro attrezzi. Domani, un’altra mattinata che se ne va a puttane. Quando avrò la barca pronta, lo so già, tornerà la pioggia. Invece avrei bisogno di provare la vela, quella provvisoria, e se necessario modificarla, anche più di una volta, fino a quando non funzioni in modo decente. Così avrei il modello per farmene cucire una vera. Variale è in caduta libera. Con la vittoria della Juve ha ripreso a respirare, poi, non si capisce perché, ha rivolto al tecnico della Lazio, mi pare che si chiami Ventura o qualcosa di simile, una velata preghiera perché si impegni a fermare l’Inter al prossimo turno. Per fortuna il campionato sta per finire e l’ineffabile Enrico avrà il tempo di smaltire lo stress prima che si ricominci. Siamo un popolo di stressati, figuriamoci ora che siamo in primavera inoltrata. Se poi aggiungiamo che da qualche anno le vittime di stress possono pretendere danni morali e materiali, è facile capire perché la crescita sia stata esponenziale. Bisogna stare in guardia e frenare gli impulsi, anche quando sembrano inarrestabili. Un vaffanculo bene scandito in presenza di testimoni, mi pare di essermi già riferito a un fatto del genere, può causare turbamenti da stress da risarcire con decine di migliaia di euro. Stress rimborsabili a parte, stress da primavera a parte, resta il fatto che siamo tutti stressati. Ieri ho accompagnato mia moglie dal fornaio. E’ andata a comprare un chilo di pane, insomma, una pagnotta, e l’ho aspettata in macchina. E’ tornata con un’aria seccata. La commessa le aveva fatto uno scontrino di due euro senza pesare la pagnotta. Poiché la pagnotta costa un euro e novanta al chilo e il peso è normalmente inferiore di almeno un centinaio di grammi, e poiché sullo scontrino di due euro non era stato registrato il peso, mi sono incazzato. Ho riportato dentro la pagnotta, ho chiamato la proprietaria e le ho chiesto se si trattava di un pane speciale o di quello che acquistiamo regolarmente ogni giorno. Per farla breve, la signora si è profusa in scuse, poi mi ha chiesto chi era al banco, domanda del tutto ininfluente, perché in quel momento c’era una sola commessa e stava origliando poco distante. Per farla breve, la proprietaria ha pesato la pagnotta, ha fatto un nuovo scontrino e mi ha dato trentacinque centesimi di resto. Poi mi sono chiesto cos’era stato a farmi incazzare tanto, certo non i trentacinque centesimi. Neanche il fatto che una stronza si fosse comportata da stronza poteva essere un buon motivo. Ciò che mi rodeva dentro era dovuto a qualcosa di più vaste proporzioni, sommerso e invisibile, che agisce sull’etica sociale come acido sulla pelle. Forse dovremmo portarci dietro una scacciacani e scaricarla in faccia al primo stronzo che si arrischia a rompere i coglioni. Potrebbe essere un deterrente, chissà, e forse anche un modo di mettere al riparo il fegato e le arterie.

martedì 16 novembre 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Venerdì, 23 aprile, 2010
Il motore non vuole partire. L’ho minacciato di buttarlo in mare, ma non ne vuole sapere. Ho telefonato al rivenditore. Mi ha suggerito di soffiare sull’imboccatura del serbatoio, dilungandosi a spiegare che se è stato fermo per parecchi giorni il carburatore potrebbe essere secco e un po’ di pressione dall’alto sarebbe di aiuto. Ho riempito il serbatoio fino all’orlo, poi mi sono messo a soffiare da spaccarmi le guance. Quello che ti manda fuori di testa con i motori è che sono insensibili. Alla fine mi sono deciso a telefonare a un amico, un meccanico di motori marini, e se ne parlerà lunedì. Chi se ne frega, tanto oggi piove. La solita pioggerellina che fa disertare i pontili e li trasforma in paesaggi remoti e malinconici. Domani pioverà ancora, a quanto dicono i colonnelli alla TV. In fondo, serve anche la pioggia. Ti richiama alla realtà, nel caso cominciasse a frullarti per la testa qualche idea strana, come, per esempio, che la vita è bella perché il sole si leva ogni mattina. Nessuna obiezione a che si levi ogni mattina, il fatto è che a volte è difficile, molto difficile vederlo, ancora più difficile sentirlo, e la colpa non è sempre delle nuvole. Capita di non notarlo perfino quando ci sovrasta e ci illumina e ci brucia la pelle. In realtà, siamo noi che sorgiamo ogni mattina e quando non lo faremo più non lo farà neanche il sole. Siamo noi a decidere che il sole debba essere visibile o meno, che ci riscaldi o che ci ignori, non sono le nuvole. Per questo i giorni di pioggia sono una sorta di test. Verificare se riusciamo a sentire il sole senza vederlo, ad essergli grati, anche se nascosto, per aver voluto sorgere insieme a noi e regalarci un altro giorno di vita. Non vanno sprecati i giorni di pioggia. Si può leggere, dipingere, scrivere, studiarsi una lingua straniera, concentrarsi sull’amore, convincersi di non essere ancora diventato una testa di cazzo sbirciando, ogni tanto, certe trasmissioni alla TV. Su questo punto occorre fare attenzione. L’espressione TDC non ha un preciso riferimento scientifico. Ogni straccio di psichiatra ti sa spiegare, dico scientificamente, malattie mentali come la schizofrenia, la paranoia, la depressione e l’immane congerie di idee ossessive che affliggono una società progredita come la nostra. Ti sanno individuare la parte del cervello responsabile, la carenza o l’esubero di sostanze, attraverso cui si crea uno squilibrio che manda in tilt un sistema di nervi e di cellule che sono la meraviglia del creato. Tuttavia, chi interrogasse gli stessi scienziati sulle cause recondite della testadicazzaggine, non avrebbe risposte soddisfacenti. Forse neanche risposte. Il fatto è che la malattia esula completamente dal settore scientifico, a meno che non si parli di scienza empirica, basata in linea di massima sull’individuazione di una comune sintomatologia. Ma anche qui, dobbiamo riconoscerlo, la situazione non migliora. Quali sono i sintomi attraverso i quali si riconosce una tdc? Si può solo rilevare che una tdc è una persona, in genere di sesso maschile per evitare contraddizione di termini, che pensa cazzate, dice cazzate, fa cazzate, induce altri a pensare, dire e fare cazzate. Dovremmo però sapere cos’è una cazzata e se cerchiamo nel dizionario dei sinonimi ne troviamo gli equivalenti in balordaggine, stupidaggine, sciocchezza. Dunque, dare del testa di cazzo equivarrebbe a dare dello sciocco, dello stupido, del balordo. Ma non è così. Certe parole, certe espressioni, hanno vita propria e si ribellano ai rigori di una classificazione, per quanto attenta. Possono essere considerate il culmine nella manifestazione di un concetto, nell’espressione di una positività o peggio ancora di una negatività. In tal senso diventa fondamentale il ritmo, l’accentazione, il suono delle vocali, la loro apertura, chiusura e il loro intervallo con le consonanti la loro forza evocatrice e i legami culturali. Da tante combinazioni, che in genere passano inosservate, scaturisce la forza, a volte la potenza e la devastante efficacia di certi epiteti. Per questo motivo, vorrei proprio dire scientifico, una testa di cazzo può avere ben poco in comune con uno sciocco, uno stupido o un balordo. Sulla scala che porta alla negazione dell’antica logica, quella fatta di sillogismi veraci, per intenderci, è a un livello più alto che si pone l’individuo con tale appellativo. Va ricordato a questo punto, che non siamo riusciti a definire una cazzata, cioè il sintomo di base, né la frequenza necessaria per definire la testa di cazzo, e che manca del tutto il supporto scientifico della causa deviante. Ciò spiega l’uso improprio frequente e l’inflazione crescente. Come dicevo, bisogna fare attenzione.

martedì 9 novembre 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Domenica, 18 aprile 2010
A due settimane dalle ultime considerazioni sui significati reconditi di una tazza del cesso, mi è tornata la voglia di scrivere. E’ come una febbricola che viene e va a suo giudizio, e quando te la senti addosso non puoi farci gran ché. Ti siedi davanti al computer e cominci a premere i tasti. A volte non sai nemmeno che accidenti scrivere, ma se insisti, qualcosa viene fuori. L’applicazione della staffa per il motore, per esempio, merita due righe, perché ormai è un problema del passato e fa la sua bella figura dietro la poppa e dà un’impressione di sicura stabilità. Quanto ai soci del club, non hanno ancora spostato le barche, perché il meteo dei fine settimana ci ha messo lo zampino. Di conseguenza, non ho ricevuto solleciti né proteste. In queste giornate di brutto tempo ho passato qualche ora davanti alla TV, in cerca di un film o anche di una trasmissione sportiva, tanto per non perdere del tutto i contatti con gli eventi fondamentali, tipo Formula uno, campionato di calcio, champions, motomondiale. Ho incocciato un paio di volte Enrico Variale, che ormai si riconosce
a fatica. Sguardo spento, occhiali senza riflessi a festa, voce lamentosa e portamento noncurante. Non riesce più nemmeno ad azzeccare un pettegolezzo ad effetto. Se la Juve non torna a vincere, ce lo perdiamo di sicuro. Quanto al motomondiale, se Lorenzo non ce la fa neppure quest’anno, forse deciderà di cambiare mestiere. Sarebbe un ottimo stunt man, nessuno sa cascare meglio di lui. In libreria i gialli sono in crisi per la concorrenza sleale della TV. I giornalisti si appropriano gratuitamente di vicende reali, di morti ammazzati sul serio, e poi si pavoneggiano a raccontare le storie, con dovizia di particolari, come se le avessero scritte loro. Invece le hanno scritte i morti, che non possono neanche reclamare i diritti d’autore. Per la giornata di ieri, il meteo aveva promesso sole e tempo asciutto, perciò mi sono alzato di buon mattino per portare finalmente la barca all’ormeggio. Invece, già alla prima occhiata, la giornata si è presentata umidiccia, con cielo coperto e ragionevoli promesse di pioggia. Siccome mi ero rotto le scatole di vedere la barca a terra, e forse anche lei era incazzata, costretta com’era a restarsene sopra i rulli come una cogliona, quando avrebbe trovato più naturale darsi una sgranchita sopra le onde, ho deciso per entrambi e non ho cambiato programma. Inutile dire che, appena arrivato al club, è cominciato a piovere. Ho aspettato una decina di minuti per capire le vere intenzioni delle nuvole, infine ho deciso che si trattava di goccioline innocue e ho cominciato a spostare la barca sui rulli. Dopo un paio di metri, malgrado il percorso in discesa, i rulli di plastica hanno cominciato a rompere. Nel ruotare accumulavano sabbia sul davanti e si impuntavano come muli. Un paio di chilometri per arrivare a casa, gonfiare un paio di rulli in plastica, altri due chilometri all’incontrario e sostituzione. Problema risolto. La barca è scivolata per una sessantina di metri fino alla riva leggera come una piuma. Ho preso il motore dalla macchina e l’ho applicato alla staffa. Un’operazione semplice, ma anche il motore ha voluto dire la sua. Occorre spiegare che questo cazzo di motore deve sempre essere appoggiato, se a terra, sul lato sinistro e mai, dico mai, neppure durante la navigazione, deve essere inclinato sul lato destro. In tal caso, come mi hanno spiegato dopo l’acquisto, un po’ di olio va a finire sulla candela e volerlo far ripartire è un’impresa da disperati. Nel momento in cui lo infilavo sulla staffa mi è scivolato di mano e si è inclinato, occorre dirlo?, a destra. E’ stato solo un attimo, ma ho avuto lo stesso brutti presentimenti. Prima di andare in acqua ho legato la vela al pennone. Non si sa mai. Il fondale è molto basso, tanto che per guadagnare quattro o cinque metri e avere un minimo di galleggiamento devo puntare il remo sul fondo e spingere con forza. Sempre per via del fondale basso non posso abbassare il motore né tanto meno timone e deriva, perciò decido di allontanarmi a remi per una cinquantina di metri attraverso uno stretto passaggio fra due file di scogli. Le nostre decisioni, però, sono a rischio perfino se prese sulla base del nostro operato, figurarsi se le prendiamo sulla base dell’operato altrui. E’ chiaro, almeno credo, che per altrui intenda quell’incosciente del mio amico pittore, che ha fissato l’alloggio dello scalmo sulla plastica dello scafo con quattro viti autofilettanti, senza curarsi delle crepe e degli squarci prodotti tutt’intorno. E poiché il remo sforza sullo scalmo e questo nel proprio alloggio, la naturale conseguenza è stata quella di veder saltare uno dei remi appena vi ho messo mano. Per fortuna il vento era di un paio di nodi e il mare calmo. In qualche modo sono riuscito a superare gli scogli e ad allontanarmi di poco. Subito dopo ho calato in acqua il motore, ma sotto funesti presagi. Infatti non è partito. Niente motore, niente remi. Per fortuna avevo già legato la vela al pennone. L’ho issata subito. Avrebbe dovuto essere un collaudo, invece era qualcosa di più. E’ andata bene. L’assetto era uno schifo, ma la barca andava. Prima di entrare in porto ho provato anche un paio di virate, poi sono entrato e ho raggiunto l’ormeggio. Quasi dimenticavo. Mentre issavo la vela, dopo i guai con i remi e il motore, mi sono ritrovato con l’acqua alle caviglie. Avevo dimenticato il tappo. Lo avevo in tasca.

mercoledì 13 ottobre 2010

Venerdì, 2 aprile 2010. Comincio a sospettare che dentro di me si sia pericolosamente risvegliato il bambino. Sono cinque giorni che sto giocando con questo cazzo di aggeggio. Ogni tanto mi illudo di averlo addomesticato, poi si fanno avanti nuovi dubbi, prima di fare i buchi sulla barca devo essere sicuro di bucare al punto giusto. Stamattina ho preso una decisione drastica. Ho fatto quattro buchi su un tavolone smisurato appoggiato al muro, mia figlia lo usa per dipingere i suoi enormi quadri astratti, e ci ho applicato la staffa con sopra il motore. Finalmente sono riuscito a sbloccare del tutto l’attrezzo e a rendermi conto di come funziona. Ho potuto fare tutte le prove che volevo, l’ho spostato in basso, in alto, poi un po’ più in alto e un po’ più in basso, poi da nessun’altra parte perché si è staccata una tavola e per poco non mi cade addosso con tutto il motore. Rimetto il tutto in macchina con una gran voglia di provare il risultato sulla barca, ma mia moglie mi avverte che sta arrivando un tizio per consegnare una giara per il prato. Passa un minuto ed è già davanti al cancello. Sistema la giara, poi, secondo accordi presi un paio di anni fa, durante i quali abbiamo aspettato inutilmente che si facesse vivo, mi incolla una terracotta vicino all’uscio. E’ una cosa artistica. Me l’ha fatta un paio di anni orsono, per l’appunto, con la promessa che di lì a qualche giorno sarebbe venuto a incollarla al muro. Ora, dopo l’acquisto della giara, non ha avuto scampo. Sulla terracotta ci abbiamo fatto incidere un castello con una scritta: My home is my castle. Più o meno vuol dire che a casa mia faccio come mi pare o anche non venite a rompermi i coglioni in casa. Quando il tizio ha finito è sosta per il pranzo. Verso le tre me ne torno in spiaggia per provare la staffa un’ultima volta, almeno me lo auguro, e dare un taglio a questo tormentone. La appoggio alla poppa e stavolta mi pare che vada bene. Prendo accuratamente le misure, il motore dovrebbe poter girare su se stesso ed essere richiamato in alto. Quando sto per andarmene, arriva il mio amico talismano e vuole dare un’occhiata. Armeggiamo un po’ con l’attrezzo e pare che vada bene, ma gli salta all’occhio che, navigando a vela, la staffa andrebbe a toccare l’acqua. Se si riuscisse, però, a far funzionare l’ostico meccanismo di sollevamento, tutto sarebbe risolto. Torno a casa e fisso di nuovo il supporto alla grossa tavola, stavolta tirando bene le viti e aggiungendo una rondella per parte. Faccio la prova e funziona. Corro a comprare una tavoletta di compensato, su cui tirare i dadi all’interno della barca, e il problema è risolto. Domani è sabato e posdomani è Pasqua. Se ne riparlerà lunedì, forse anche martedì. I soci del circolo pazienteranno. La vita è un lungo esercizio di pazienza. Quelli che non lo sanno si buttano dalla finestra (dicono che i suicidi siano solo gente impaziente), ci buttano la moglie, sparano, accoltellano e fanno esplodere bombe sotto il culo degli altri. In genere però la gente non crede alla pazienza, altrimenti non sarebbe stata aggiunta una propaggine al saggio detto, di questi tempi arcaizzante, la calma è la virtù dei forti. Adesso suona un po’ diverso, cito la calma è la virtù dei forti, la pazienza è la virtù dei coglioni. Nessuno vuole più essere paziente, nessuno vuole essere coglione, meglio esplodere e provocare cataclismi. Montezemolo gira in Ferrari, la vogliamo anche noi, vogliamo tutto e subito. Perfino i santi li vogliamo subito. Paolo VI, lo vogliamo santo e subito. A volte le verità più profonde si incontrano in luoghi impensabili. Meglio di tanti discorsi, è l’esempio calzante che squarcia la nebbia e ci irrora di luce feconda. Su una ceramica di Orvieto, raffigurante una tazza del cesso, appariva la scritta tutto arriva per chi sa aspettare. Di certo avrà indotto molta più gente a riflettere sulla imprescindibilità della pazienza di qualche voluminoso tomo di filosofia. Spesso neppure le citazioni dei personaggi più illustri appaiono sufficientemente chiare e credibili, specie quando appaiono il risultato di una elaborazione cerebrale. Prendiamo Jean Jacques Rousseau, quando dice che la pazienza è amara, ma il suo frutto è dolce. E’ un concetto astratto, non aggressivo, non ti afferra per le palle senza allentare la stretta fino a quando non hai capito. Neanche Pablo Neruda è molto convincente, sostenendo che solo l’ardente pazienza può portarci a una splendida felicità. Nessuno sa cosa sia la felicità, e vorrebbe tanto saperlo, se poi si tratta di una splendida felicità, si entra nella sfera dell’inconoscibile. Ma da dove ho cominciato per arrivare a tanta saggezza? Dalla tazza del cesso, certo. Se i soci del circolo faranno difficoltà per il ritardo, gli parlerò delle porcellane di Orvieto.

martedì 12 ottobre 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Mercoledì, 31 marzo 2010. Sono le due di mattina e appena mi sono svegliato ho capito che non c’era verso di rimettermi a dormire. Insonnia. L’unico rimedio è farmi un caffè e fumarmi una sigaretta. Aspettando che si faccia il caffè, mi sono messo a scrivere. Ieri non è piovuto, ma la barca è ancora lì. Fare programmi è da presuntuosi. Come voler predire il futuro. Per di più, non riesco a capire il verso di questa dannatissima staffa da applicare alla poppa. Durante le mie ricerche per i negozi di nautica ho visto almeno una decina di illustrazioni, ma nessuna era uguale a questa. Erano di una semplicità estrema, non c’era bisogno di chiedere quale fosse il verso, cioè quale parte andasse in alto e quale in basso. Ho fatto anche un salto al rimessaggio, ho chiesto a quattro cinque sprovveduti come me, ma non c’è stata illuminazione. Alcuni propendevano per un verso, altri per quello opposto, e io sono rimasto con il trapano in mano e con il timore di forare la barca in modo sbagliato. Naturalmente non ho fatto buchi e mi sono riportato a casa il trapano e la staffa, sperando in un avvenire migliore. Ho provato a telefonare al rivenditore, e subito il tizio si è impegnato in una disquisizione sulla funzione della staffa, usando termini maledettamente tecnici, di pertinenza della meccanica, di cui non capivo un cazzo, in un tono scontato e pieno di sussiego, senza peraltro rispondere alla mia domanda, del resto molto semplice da capire anche per un buzzurro –quale parte va sopra e quale sotto?- con il risultato di un supplemento di incazzatura e una telefonata sprecata. Poi mi sono ricordato di un amico, anche lui ha la barca al rimessaggio, che poco si intende di vela e per fortuna va solo a motore. Ho fatto di nuovo un salto alla barca, sperando di incontrarlo, e quando l’ho visto, quasi non ci credevo. Mi ha chiarito la situazione in due parole e domani mattina viene a darmi una mano per montarlo. Appuntamento alle dieci. Non è vero che l’umanità è condannata alla sofferenza, non sempre. Il giorno dopo, ore dieci e un quarto. Ad alleviare la sofferenza il più delle volte è solo un’illusione passeggera. Il mio amico è arrivato puntuale, ma con una fretta del diavolo, mi ha dato qualche indicazione sommaria, ha cercato di sbloccare il maledetto aggeggio, mi sono dimenticato di annotare che era maledettamente bloccato, poi ha detto che lo aspettava la moglie ed è sparito come un fugacissimo banco di nebbia. Ho cercato di ricordare i suoi suggerimenti ultrarapidi, ho provato l’aggeggio sulla poppa per vedere se il problema era risolto. Neanche per sogno. Sono tornato a casa e ho telefonato al rivenditore. Appuntamento alle quindici. Arrivo puntuale come una cambiale in scadenza, non trovo il tizio che me l’ha venduto. Al suo posto c’è un altro, più insofferente, deve essere il padrone. Gli espongo il problema e lui quasi si incazza, poi io gli dico che il marchingegno è bloccato e lui si incazza ancora di più, perché, dice, senza averci montato il motore certo che è bloccato. Se è vero, come sostengono molti psicologi, che in ciascuno di noi abita un genitore, un adulto e un bambino, il rivenditore aveva certo indossato i panni del genitore e stava rimproverando un bambino disattento, senza sapere che il bambino che credeva di avere di fronte era in realtà un adulto molto, molto incazzato, di certo più incazzato di lui, che si stava ricacciando in gola, a fatica, una lunga serie di fanculo a vantaggio del proprio particulare. Quello guicciardiniano, per intenderci. Mi spiega, anche lui a grande velocità, cosa devo fare, poi mi restituisce il coso e si dedica ad altro. Torno in spiaggia e appoggio il coso alla barca cercando di seguire le sue indicazioni. Di nuovo non mi convince, e davvero comincio a dubitare di essermi rincoglionito. Ma quando mi è successo? Possibile che in famiglia non mi abbiano detto niente? Personaggi strani non ne ho visti, voglio dire psichiatri o psicologi introdotti di straforo per una visita a mia insaputa, magari contrabbandati per testimoni di Jeova o promotori telefonici, o venditori di enciclopedie e non so che altro. Niente di tutto ciò. Dunque è probabile che abbia ancora tutte le cellule funzionanti e che se le metto in moto, senza continuare a chiedere a tanta gente, creando problemi a chi ha fretta e facendo incazzare chi non ha pazienza e mi fa capire che non ha tempo da perdere con chi è tanto imbranato da dover chiedere spiegazioni, forse arriverò a una qualche conclusione. L’arnese si è bloccato in una posizione che mi rende difficile capire come cazzo funziona. Per prima cosa, sbloccarlo. Mi infilo due guanti molto spessi per proteggermi le mani e ci provo. Dopo ripetuti tentativi e un numero imprecisabile di moccoli, ci riesco, anche se solo in parte, e incredibilmente si svela l’arcano. Ripeto la prova appoggiandolo alla poppa, e, che sia il modo giusto o no, mi pare che possa andare. Forse domani mattina riesco a montarlo, portare la barca all’attracco e chiudere questo fottutissimo capitolo della staffa misteriosa. Ho detto forse. Niente programmi.

lunedì 27 settembre 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Martedì, 30 marzo 2010
Mattinata luminosa e senza vento, ideale per spostare il quasi fly junior dall’attracco al rimessaggio, soprattutto per tirarla a riva, con il mare piatto come una tavola. Pensieri al vento. Mia moglie deve recarsi in un paio di posti, il traffico è fitto e i parcheggi scarseggiano. Per di più c’è una masnada di vigili, aspiranti vigili e vigili in appalto che si aggirano fra le auto in sosta con il taccuino delle contravvenzioni nella sinistra e il prurito nella destra. Quanto ai mancini, il prurito ce l’hanno nella sinistra. Se ti beccano, meglio non protestare, tanto non c’è perdono per chi incorre in quisquilie del genere. Se ammazzi qualcuno, o se almeno fai parte di una banda di assassini, allora è diverso, perché con il pentimento si dimenticano di quanta gente hai ammazzato e ti guadagni un premio. Con la qualifica di pentito hai diritto a una pensione, una casa nuova, cose del genere. Per farla breve, accompagno mia moglie in modo di poter restare in macchina nel caso debba parcheggiare alla meglio. Vado al pontile di pomeriggio, ma si è già levato un po’ di vento. Incontro un amico di vela, un toscano. Fa il falegname, ma solo per dieci mesi all’anno, perché d’estate pianta il lavoro e anche l’idea del lavoro e viene a godersi la barca insieme alla moglie. E’ un’inglese, anche lei va matta per il mare e insieme fanno una coppia piacevole a starci insieme. Mi avverte che ci sono onde molto lunghe e se si va a terra bisogna fare attenzione per via delle barriere di scogli. Ci sono abituato. Esco dal porto tranquillamente, le onde rompono a riva. Mano a mano che mi allontano le onde si fanno più alte, ma sono sempre innocue. Poi, quando arrivo e devo passare fra due file di scogli, le cose si complicano un po’, perché con la prua a terra comincia una sorta di surf. Cerco di allinearmi al verso dell’onda e per fortuna l’occhio non mi tradisce. Quando sono a trenta metri un cavallone si impadronisce della barca e mi porta dritto dietro gli scogli attraverso lo stretto passaggio. Dentro tira un’altra musica, c’è maretta, tiro su in fretta il motore, subito dopo il timone e la deriva, se no si spezzano urtano il fondo, e mi lascio portare a terra dai frangenti. Ho solo un rullo di gomma, l’altro è di plastica, perciò rischio qualche vertebra per tirare la barca in secca, poi la scarico completamente per alleggerirla e comincio a farla rullare verso il rimessaggio. Niente da fare, perché proprio in quel momento si mette in moto una ruspa che in un minuto solleva tanta terra da creare una barriera insuperabile fra me e le altre barche. Fanculo. Per raggiungerla devo uscire dalla spiaggia e allungare il tragitto di almeno tre volte. Arrivo dopo un tre quanti d’ora, a corto di fiato, non riuscirei a spegnere una candela. Salvagente, timone, deriva, vela e fiocco e tutto il resto sono ammucchiati sulla spiaggia. Ce li ho lasciati quando ho dovuto alleggerire la barca. La macchina è rimasta sul molo e devo andare a riprenderla. Un paio di chilometri. Me li faccio a piedi, e per strada continuo a ripetermi che non faccio moto da tanto tempo e che ne avevo un gran bisogno e che posso finalmente approfittare di una buona occasione, mentre le gambe pare che siano di tutt’altro avviso. Non condividono il mio entusiasmo, ma mi portano a destinazione. Mi metto al volante, vado a riprendermi il tutto e me ne torno a casa. A scaricare la macchina non ci penso nemmeno, preferisco scaricarmi di peso sul divano e alleggerirmi il cervello ascoltando stronzate alla televisione. Riecheggiano ancora i commenti dei politici sui risultati delle elezioni regionali. Difficile capire chi ha vinto, perché nessuno ammette di averle perse. Poi arriva Bersani che pare si sia scoperto meteorologo. Da un pezzo non fa che ripetere che il vento sta cambiando e comincia a soffiare in un’altra direzione. Nessun riferimento alla rosa dei venti. E’ una sorta di disco inceppato che continua a girare anche dopo le elezioni. Sempre più spesso appare Di Pietro, al colmo della beatitudine per l’indice di gradimento salito al sette per cento, candidato all’aureola di leader della sinistra. Arriva Bossi e giura eterna fedeltà all’amico Berlusconi, che ha il patema d’animo ogni volta che Umberto apre bocca, memore di quello che gli ha combinato in una passata legislatura, mica tanto lontana. L’umore del senatur è variabile e cambia direzione molto più in fretta del vento di Bersani. A sublimare la merda, la più maleodorante possibile, arriva la pubblicità. La cellulite è una malattia, a caratteri cubitali. Sconvolgere la psiche delle donne, a partire dalle dodicenni, è routine per chi ha qualcosa da vendere. La televisione è il nuovo Verbo, forse sarebbe il caso di scriverci una nuova Bibbia, a cui anche i genitori siano tenuti a prostrarsi. Così potremmo starcene tutti tranquilli, senza provare più quel prurito ai piedi e la voglia di dare tanti calci in culo a tanti figli di puttana invisibili.

sabato 25 settembre 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Lunedì, 29 marzo 2010
Ho rallentato il ritmo del diario, se no arriva maggio e con la barca sono ancora in alto mare (si fa per dire). Domenica ho fatto un salto al rimessaggio dove tengo il vaurien, e invece delle due consuete file di barche ho trovato un deserto di sabbia. Sono rimasto basito (quanto mi è antipatica questa parola). Può capitare che una mareggiata improvvisa faccia scempio di alberi, murate e specchi di poppa, perfino che si porti via qualche imbarcazione e la scaraventi contro gli scogli, ma che faccia sparire una trentina di barche non è mai successo. Ho fatto ancora qualche passo e le ho viste, tutte raccolte sotto la massicciata della ferrovia. Evidentemente il comitato direttivo del circolo ha deciso di effettuare opere di miglioramento e ritenuto necessario spostarle. La mia, quella nuova (si fa ancora per dire), che avevo parcheggiato defilata dalle altre di almeno una decina di metri, era ancora là, ma è probabile che non l’abbiano toccata perché sapevano che era lì in allestimento e che l’avrei portata via a giorni. Però era di intralcio, e lo è ancora, e al massimo avrò tre o quattro giorni di tempo per portarla all’attracco. Ho cominciato subito a darmi da fare per trovare una staffa per il fuoribordo, che sia disponibile subito. Telefonate a destra e a sinistra. Niente da fare. Prezzi da ottanta a cento euro e non disponibile prima di tre o quattro giorni. Decido di andare a ordinarne una a una quindicina di chilometri (non è stato possibile ordinarla per telefono, bisognava andare di persona e versare un acconto), disponibile fra un paio di giorni, almeno a sentire il commesso, a settantacinque euro, il miglior prezzo fino a quel momento. Per strada, decido di fermarmi al rimessaggio per vedere se la barca, sola soletta, è in ordine, e incontro un amico, uno di quegli amici che portano bene, da cui ricevi sempre indicazioni utili, anche se non gliele chiedi, ed è anche sempre disposto a dare una mano. Per caso gli parlo del mio problema e mi indica un negozio di accessori per la nautica, sempre a una quindicina di chilometri, ma nella direzione opposta. Non ricorda il nome, ma mi indica, all’incirca, dove si trova. Corro a casa e accendo il computer. Cerco i negozi di nautica della località che mi ha indicato e ne trovo subito uno che mi strizza l’occhio. Telefono e mi risponde un tizio, che molto gentilmente mi informa che ne ha un paio disponibili, mi dice i prezzi, un po’ alti, e mi avverte che una delle due staffe non è regolabile. Gli chiedo se faccio in tempo a farci una scappata per rendermi conto di persona. Non manca molto all’orario di chiusura, perciò mi chiede da dove telefono. Quando glielo dico, mi risponde che conosce bene la mia città, ma non farei in tempo perché sto parlando con la Sardegna. Omonimia di toponimo. Mi scuso e riprovo, stavolta indicando anche la provincia, e in un attimo trovo quello che cerco. Risponde una voce femminile, le faccio la mia richiesta, ma capisco che è poco pratica. Prima devo spiegarle bene cosa voglio, poi mi dice che non ce l’ha ma mi prega di aspettare un momento perché deve chiedere a qualcuno. Torna con la voce più allegra e mi dice che ce l’ha. Prezzo settanta. Chiedo anche a lei se faccio in tempo ad andare a prendermelo, perché manca solo una mezz’ora scarsa alla chiusura e per arrivare da lei devo percorrere una nazionale a quell’ora intasata come una carotide con un paio di stenosi. Mi concede dieci minuti di franchigia. Uscendo in macchina incontro mia moglie e le chiedo se vuole venire. Arriviamo in perfetto orario. Acquisto la staffa, poi porto mia moglie a festeggiare in una gelateria dove preparano affogati che fanno risuscitare i morti. Il programma (pessima parola) per domani mattina è montare la staffa come prima cosa, poi andare a prendere il quasi fly junior e tirarlo a riva al rimessaggio, sistemarlo con le altre barche sotto la ferrovia, mettere in mare la barca nuova e portarla al largo a motore, provare la vela e poi attraccare al pontile. Speriamo che non piova.

giovedì 16 settembre 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Venerdì, 25 marzo 2010
Una delle peggiori cazzate fatte l’anno scorso è stata quella di comprarmi un fuoribordo con il gambo corto. Capita di fare una cazzata, ma quando senti il campanello di allarme suonare a ripetizione nel cervello e la fai lo stesso, allora è roba da coglioni. Ho provato a montarlo sulla barca nuova, si fa per dire, e l’elica non arriva a toccare l’acqua. Nemmeno a sfiorarla. Dovrò provare con un supporto per motori ausiliari. Mi costerà fra i cinquanta e i cento euro e una selva di imprecazioni. Ammesso che vada bene. Don’t cry over spilt milk. Pure sprecare lacrime dopo aver versato il latte è roba da coglioni. Anche i lucciconi servono a qualcosa e non vanno sprecati. Piuttosto, mi incuriosisce ciò che si mette in moto nel cervello quando si deve decidere. Pare che in quel momento si crei un contrasto fra la istinto e razionalità, che hanno sedi contrapposte nella scatola cranica, non ricordo quale a sinistra e quale a destra. Ci sono psicologi che attribuiscono poca importanza alla sede razionale, che non sarebbe quella a cui ci si deve affidare, specie nel prendere una decisione veloce. Una eccessiva razionalità potrebbe ritardare una decisione importante e lasciare che ci scervelliamo mentre dovremmo agire. Il subconscio sarebbe più veloce nell’evidenziare certi dettagli, non che ne sia proprio convinto, devo dire, e indugiare troppo sulle conseguenze porterebbe a ritardi mai più recuperabili. Da questa ottica, una fede smisurata nell’istinto appare determinante, anche nella consapevolezza del rischio. Che cosa mi ha detto l’istinto, quando ho comprato questo cazzo di motore? Sento ancora la voce del rivenditore che mi chiedeva se preferissi il gambo lungo o quello corto e ricordo perfino i miei processi mentali che partivano dal considerare che prima o poi avrei dovuto sostituire il quasi fly junior con un’imbarcazione un po’ più comoda, certamente più alta di poppa, dove il gambo corto sarebbe risultato inevitabilmente troppo corto. Poi ho pensato che lo specchio di poppa del quasi fly junior era basso e che se l’elica sta solo una quindicina di centimetri sott’acqua la barca fila molto più veloce. E’ stato sufficiente a farmi decidere per quello corto. Che razza di ragionamento! Per la verità i ragionamenti sono stati due, ma uno doveva essere inquinato. Certamente il secondo, che però ha avuto la meglio. E’ prevalso il fattore emotivo, istintivo, il desiderio di velocità, e mi sorge il dubbio che la fede cieca nell’istinto non sia sufficiente garanzia quando si decide. Come si dice, del senno del poi son piene le fosse. C’è anche chi la vede in modo diverso, riguardo alle decisioni, e pur senza confutare l’importanza dell’istinto, non suggerisce di gettarcisi dentro a capofitto rischiando di non tornare più a galla. Nel mio caso, per esempio, sarebbe stato l’istinto a fare la prima mossa, facendomi desiderare un fuoribordo nuovo, non tanto per il lustro, ma più che altro perché mi ero rotto la schiena a furia di tirare il cavetto, a volte per ore e inutilmente, di un fuoribordo del 1977, che a volte sostituivo con un altro del 1988, che non andava molto meglio. Senza contare il passatempo di tirarli giù, caricarli in macchina e portarli in un paesino a 6 chilometri, dall’unico meccanico che aveva ancora i pezzi di ricambio. Anche se la zona raziocinante diceva che un nuovo fuoribordo non era una urgente necessità, visto che bene o male, in qualche modo potevo ancora tirare avanti per qualche mese, l’istinto si era rotto i coglioni e gridava che quella non era più vita. Poi c’è stata una seconda fase, nel corso della quale avrei dovuto valutare quale tipo acquistare, gambo lungo o gambo corto, e a questo punto avrei dovuto accordare il massimo di credito a quella zona raziocinante che era chiamata in causa per competenza. In tutta onestà devo riconoscerle dei meriti, infatti mi ha fatto notare che in un prossimo futuro, cambiando barca, sarebbe stato un fiasco, ma io non ho ascoltato. Facile da spiegare. C’è stato un flop dell’essere pensante, un rifiuto del raziocinio, un nuovo tuffo nella goduria dell’istinto. Ecco perché fra uno o due mesi, forse anche prima, dovrò chiedermi che cazzo farne di un fuoribordo ancora nuovo, che va in moto al primo colpo, al massimo al secondo, e non mi ha mai dato l’ombra di una rogna. Sotto l’egida dei Gemelli dovrebbero nascere persone intelligenti. Per quanto mi riguarda, comincia ad assillarmi il dubbio.

domenica 12 settembre 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Mercoledì, 24 marzo 2010
Alle dodici ho recuperato la macchina, come da programma, alle due ci ho caricato sopra l’albero e la vela provvisoria arrotolata al pennone, con due segnali rossi a ciascuna estremità, in realtà due rulli di plastica sgonfi facenti funzioni, e anche un po’ di fifa perché il pennone di oltre cinque metri sporgeva drammaticamente sul davanti e sul retro dell’auto, cosa che di solito la polizia disapprova e si premura di sconsigliare per iscritto, in lettere e in cifre. Per fortuna, anche i poliziotti fanno pranzo. Ho raggiunto la barca, incastrata fra le altre in una sorta di disordinato rimessaggio e fin qui tutto bene. Per provare la vela sull’albero e prendere le misure prima di tagliare avrei avuto bisogno di calma piatta o, meglio ancora, di un venticello del Sud. Invece mi è arrivato da Nord, proprio sulla poppa, a spingere la vela dalla parte opposta. Spostare la barca sarebbe stato impossibile, il lavoro scomodo e troppo approssimativo, me ne sono tornato a casa. La TV è sovraccarica di propaganda elettorale, un’aggiunta agli spot pubblicitari, alcuni leader non ripetono che slogan, senza un vero significato, proprio come negli spot. Uno dei pochi pregi della TV è la facoltà di cambiare canale. O di spegnere il televisore. Zac!

Giovedì ho tralasciato di scrivere perché sono stato impegnato con la vela. E’ arrivato l’agognato venticello del Sud e mi sono proiettato in spiaggia. La prima volta per prendere le misure. Malgrado il vento fosse quello giusto, non era per niente facile essere preciso senza qualcuno che mi reggesse la vela. Naturalmente le ho prese lo stesso, tanto rischiavo solo un telone da dieci euro. A casa ho disteso il telone sullo scivolo e ho tagliato in base ai segni che ci avevo fatto con il pennarello rosso. Mi sono aiutato con un nastro adesivo, incollandolo lungo i bordi per evitare casini mentre tagliavo. Ne è risultata una vela decente, solo, mi pareva un po’ piccola. Nel pomeriggio sono tornato per la prova. L’ho legata di nuovo al pennone e finalmente l’ho issata. Quasi mi viene un colpo, perché invece della vela che mi aspettavo ho visto un mostro fluttuare nell’aria. Tanta era l’ansia di vedere com’era riuscita, che avevo issato il pennone a rovescio. Un pescatore, vicino a me, mi ha chiesto se stavo tirando su uno spi. Cazzo, se aveva ragione. Ho rovesciato il pennone e ci ho riprovato. Niente male, e non era neanche piccola. Lavoro finito, pronti per la prova in mare. Manca solo un occhiello sull’angolo di poppa per passarci la scotta. Ci penserà la mia parente merciaia. Dopo pranzo mi sono seduto vicino a mia moglie davanti alla televisione. Davano uno di quei polpettoni che vengono trasmessi da una generazione all’altra senza soluzione di continuità, dove i ruoli dei protagonisti vengono poco a poco modificati per intollerabili limiti di età degli attori, che cominciano come amatori e finiscono per fare i nonni. Ci sono delle eccezioni, con interpreti che hanno l’aria di rospi, senza neanche una futura chance di trasformarsi in principi, ai quali viene affidato il ruolo di amatori irresistibili. Cazzo, un minimo di rispetto per l’audience. In proposito, hanno dovuto ricredersi anche nel mondo del melodramma. E’ vero che si andava all’opera per ascoltare performance vocali di grandi tenori, soprano, baritoni e bassi, ma c’era anche una trama, e raramente i personaggi avevano le phisique du rôle. Era necessario sottostare alla violenza di accostamenti innaturali per poter credere al dramma di una Butterfly di cinquant’anni, larga come una botte e con il doppio mento, o al folleggiare di una Violetta, alla passionalità di una Carmen che entravano in scena vecchie e con tratti pachidermici, a un’Aida campionessa di wrestling, a un Rodolfo che, nella Bohéme, se fa pranzo non fa cena e a volte non fa né l’uno né l’altra, che si presenta sul palcoscenico gonfio come una mongolfiera e prende in mano una gelida manina dalle dita simili a salsicce. Voci di usignoli che uscivano dall’ugola di cornacchie, con tutto il rispetto, ma nessuno sembrava farci caso. Ultimamente, però, ho visto un paio di trasmissioni decenti alla TV, dove si esibivano cantanti lirici, più o meno giovani. Nessuno avrebbe sfigurato nei ruoli di Carmen, di Violetta, di Rodolfo, di Aida o della Butterfly, e si sarebbero accordati mirabilmente ai testi che i librettisti avevano scritto pensando a tipi come loro. Lo sappiamo tutti che è una finzione, ma se agli artisti non manca le phisique du rôle possiamo almeno fingere che sia vero, immedesimarci nella vicenda e goderci il pathos. Il termine originario di un tale atteggiamento autoingannevole del lettore, in questo caso dello spettatore, è inglese. Si chiama suspension of disbelief (sospensione dell’incredulità, più o meno) e non è niente di nuovo, come concetto letterario risale agli inizi del secolo scorso. Un tempo era riservato a pochi addetti ai lavori, ma dopo una sorta di revival nel film Basic Instinct, ora è di certo un concetto universale.

mercoledì 1 settembre 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Martedì, 23 marzo, 2010. Il carrozziere non ha trovato il pezzo dalla concessionaria (e ti pareva!), ha dovuto ordinarlo. Se riuscirà ad averlo stasera, la macchina sarà pronta per domani a mezzogiorno. Non so se devo credergli. Anche oggi, quando ha risposto al telefono, ha farfugliato un pochino. Con una sola macchina, non siamo al culmine dell’efficienza, ma non è il caso di disperare. Certo, se di simili inconvenienti se ne accumulano quattro o cinque, come ci è capitato fra ieri e oggi, e sarebbe superfluo elencarli, tanto non c’è pericolo che me ne dimentichi, allora è tutt’altra cosa e si potrebbe anche sprofondare in un baratro filosofico con la pretesa di affrontare l’argomento della felicità e capire se quando sei incazzato sei infelice e se essere felice vuol dire solo che non sei incazzato. Capisco che si tratta di un modo riduttivo di affrontare l’argomento, che peraltro è stato sviscerato da cervelli molto più illuminati, ma che alla fine sono giunti a conclusioni poco illuminanti. Omnis instabilis et incerta felicitas est (la felicità è sempre instabile e incerta), diceva Seneca, per esempio, che però ha anche affermato In virtute felicitas posita est. Quanto alla prima, è un po’ nebbiosa e lascia il tempo che trova, quanto alla seconda, va chiarito il senso della virtù. Se ai tempi di Seneca il primo anelito dello spirito era conquistare la virtù oggi non si può dire lo stesso. La virtù è stata rimpiazzata con l’auto di grossa cilindrata, la villa al mare o la nave da diporto di ventiquattro metri. Dunque, mutatis mutandis, bisognerebbe dire che sono queste ultime a dare la felicità. Invece non si può, o si entrerebbe in collisione con il paradosso di Easterlin. Approfondendo uno studio sul rapporto fra la ricchezza e la felicità di un individuo, ha riscontrato che oltre un certo limite esso è inversamente proporzionale, il che vuol dire che se troppo cresce la ricchezza, cala la felicità. Se è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri in Paradiso, vuol dire che i ricchi sono malvagi, e se è vero, come dice Giovenale, che nessun malvagio è felice, di nuovo ci scontriamo, e stavolta anche peggio, con l’idea che i rimpiazzi dell’antica virtù portino con sé la felicità. Un baratro è sempre pericoloso, anche se filosofico, meglio non lasciarsi precipitare. Concludo dunque, arbitrariamente e senza citazioni, che evitare le incazzature è già un primo passo verso la felicità. Il fatto è che le incazzature mica te le vai a cercare, te le recapitano a domicilio con la posta, per telefono, perfino con le mail, ci sbatti il muso per la strada, nei negozi, ancor più nei supermercati, ti scoppiano dentro casa. Nessun governo si è mai occupato delle incazzature, perciò inutile cercare la salvezza dietro l’usbergo di leggi al riguardo che mai vengono promulgate. Per salvare il bilancio della Sanità se la sono presa con i fumatori, li hanno criminalizzati, hanno fatto girare voce che si tratti di comuni drogati, se la sono presa con gli obesi, poveracci, che già sono pieni di guai per conto loro, e ormai siamo a un passo dal criminalizzare i vecchi, una sorta di parassiti che beneficiano dell’assistenza sanitaria a sbafo. Invece le incazzature, quelle che fanno salire la pressione a livelli esplosivi e distribuiscono a piene mani ictus, infarti e invalidità permanenti, continuano ad essere ignorate senza speranza. Ma forse è meglio così. Il Parlamento, come al solito, affronterebbe il problema da un’ottica fasulla, come ha fatto per gli obesi e i fumatori. Non se la sono presa con chi mette il cibo spazzatura in commercio, ma con chi lo consuma, per ovvi motivi non hanno vietato la vendita di tabacco, preferendo criminalizzare chi lo fuma. Inutile chiedersi cosa scaturirebbe da un’eventuale presa di posizione del legislatore riguardo alle incazzature. Non se la prenderebbe con chi ti fa incazzare, ma con chi si incazza, facendo salire il numero degli infarti e degli ictus a livelli inimmaginabili. Sarà meglio continuare a provvedere da soli con i consueti fanculo, merda, magari cercando di perfezionare tono e volume, forse anche il numero in successione e curando gli intervalli, in modo che l’effetto ansiolitico si produca con maggiore efficacia. Per gente meno scurrile, esistono anche delle varianti. Potrebbero gridare Jeronimo!, con quanto fiato hanno in gola, e mettersi a spaccare tante cose inutili di cui avrebbero dovuto disfarsi da tempo, oppure cominciare a ballare al grido di Akuna matata!, come insegnava allo sventurato Simba il simpatico maialino, o forse era un cinghialino, in in The Lion King.

lunedì 30 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Lunedì, 22 marzo 2010. Piove. A volte il cervello funziona come un computer, pronunciare o scrivere una parola è come premere un tasto e aprire una finestra. A me succede, per esempio, con piove. Nella schermata compare una poesia. Non ricordo quando l’ho studiata, ma certamente andavo in giro con i pantaloncini corti, anche d’inverno, e mi cavavo ancora i denti da latte con il filo da cucito. Un paio di volte anche a scuola. In quelle due occasioni frequentavo la scuola media ed è facile risalire all’età, anno più, anno meno. Nella schermata appare una poesia, chissà come si chiamava il poeta, ma cominciava proprio con Piove, e non ne ricordo che pochi versi. Piove, e laggiù sulla via/si sente l’intima malinconia/di quella pioggia che cade./ Piove da un’ora soltanto,/ ma il bimbo pensa/che già piova da tanto,/da tanto, sopra la grande città. In un altro punto dice che lo scroscio si sente giungere dalle vetrate/che versan lacrime lente/come fanciulle imbronciate. Non ricordo la datazione, ma è molto vecchia e certo si riferiva a un’altra pioggia. Difficile credere che quella di oggi possa risvegliare, cadendo, un’intima malinconia. Sarà perché è piena di acidi, forse anche un po’ di radiazioni, e la prima cosa che ti viene in mente è di cambiare l’acqua al cane, se tieni la ciotola all’aperto, o ti muore avvelenato. Di sicuro il disboscamento e l’edilizia abusiva erano in uno stadio primordiale e quando pioveva non crollavano intere colline, seppellendo case e cristiani. Poi c’è da chiarire la faccenda del bimbo. Quanti anni poteva avere? Per provare un’intima malinconia doveva averne almeno dieci o dodici. E oggi, si è ancora bimbi a quell’età? Meglio scendere a sei anni, sette al massimo, perché a dodici si è già contaminati. Non bisogna dimenticare che intorno a loro si agita uno stronzo mondo di adulti e che crescono all’ombra di giocattoli supertecnologici, delle play station, dei cellulari multifunzione e non so di che altro ancora. E’ anche probabile che di questi tempi un’intima malinconia possa venire scambiata per una psicosi e destare gravi inquietudini. Conclusione? Non era solo la pioggia ad essere diversa. Divagazioni. Riflessioni. Raro che siano incoraggianti. Comunque, poco male se oggi piove. Alle dieci e mezzo ho appuntamento dal dentista, orario disgraziato che manda la mattinata a puttane. Poi dovrò anche occuparmi dello specchietto retrovisore della macchina. E’ proprio quella che di solito usa mia moglie. La preferisce per via della retromarcia meno impegnativa. Decido di andarci quando apre, di coglierlo di sorpresa e di convincerlo a metterci le mani subito. Mia moglie però vorrebbe essere più sicura, accertarsi di non fare un viaggio a vuoto avvertendolo con una telefonata. La accontento e prendo appuntamento con il carrozziere per le due del pomeriggio. Cioè, lui apre alle due e mezzo, ma io posso lasciargli la macchina alle due, davanti alla carrozzeria. Le chiavi nella cassetta della posta. Dal tono mi è sembrato di capire che ha intenzione di farla subito. Poi ascolteremo il verdetto, ma so per certo che sarà salato. Fanculo i soldi. Speriamo almeno che la faccia davvero per stasera. Con una sola macchina facciamo fatica a muoverci. E’ incredibile che ci sia stato un tempo in cui in famiglia ci si spostava su un paio di biciclette, una da uomo e una da donna, o anche su una sola, da donna, perché andava bene per tutti, e che era già fortunato chi poteva permettersi uno di quei motorini da applicare alla bici e viaggiare rilassato a una ventina di chilometri l’ora, e non è difficile collegare il tutto ad altri cambiamenti del genere e al fatto che oggi i fottuti soldi non bastano mai. Il modello consumistico non fa sconti. Se non lavori, non mangi, ma se non consumi, non lavori. Un caso raro, in cui due più due fa quattro. Oggi sono andato a farmi otturare un dente. Aveva una carie nascosta, ma non c’è voluto molto. Anzi, il tempo avanzato è servito a farmi estrarre anche un dente del giudizio che dondolava come una campana e stava lì da un paio d’anni a vivere da parassita. Verso le quattro è finito l’effetto dell’anestesia ed è stato il momento della verità. Me la sono cavata applicando alla guancia un pacco di surgelati che ho tirato fuori dal freezer. Più tardi sono perfino riuscito a mangiare qualcosa. Una torta, per la verità, niente da masticare. Alle sei ho richiamato l’amico carrozziere. Della mia telefonata non ricordava un cazzo, è andato subito a vedere la macchina ed è tornato come un fulmine per dirmi che non c’era niente da fare. Tranne spendere un capitale per sostituire tutto il blocco dello specchietto. Mia moglie ha assistito alla telefonata senza fare commenti. Era solo incazzata. Mai fidarsi dei programmi, comincia a impararlo anche lei. Speriamo di potercela riprendere per domani sera. La prova del pennone e della vela è rimandata a posdomani. E’ piovuto tutto il giorno, per fortuna senza scrosci, comunque domattina si va a sgottare.

domenica 29 agosto 2010

Domenica, 21 marzo 2010
La domenica dovrebbe portare con sé il riposo, soprattutto quello del cervello, delle coronarie, insomma, di tutto quel sistema che durante la settimana ci logora i nervi, responsabile di uno stress che giorno dopo giorno si fa più aggressivo e pericoloso e pare abbia deciso di ammazzarci tutti. Invece la prima incazzatura è arrivata a colazione, quando per disgrazia ho acceso il televisore. Si parlava del famigerato Omar, di solito accoppiato ad Erika per aver commesso a sangue freddo due omicidi agghiaccianti, della soddisfazione generale nel vederlo di nuovo in libertà dopo aver scontato nove anni, e neanche tutti in carcere, invece dei quattordici che gli erano stato comminati, del fatto che era cambiato, che aveva portato a termine i suoi studi e che aveva deciso di ricominciare daccapo. A diciassette anni, solo un anno prima della maggiore età, questo bravo ragazzo, in compagnia di un’altra assassina come e forse anche peggio di lui, aveva accoltellato e ucciso a sangue freddo una povera donna la cui sola colpa era stata di aver partorito una criminale. Il numero esorbitante delle coltellate, all’incirca una settantina, testimoniava con quanta ferocia si erano accaniti sulla poveretta. Il fratellino di lei si stava preparando per il bagno, era stato attirato dal rumore e aveva assistito allo scempio. Erika e Omar, li ho sentiti sempre chiamare con i rispettivi nomi di battesimo, quasi con simpatia e familiarità, come fossero i protagonisti di un reality in prima serata, non hanno avuto tentennamenti. Prima hanno cercato di affogarlo, senza riuscirci, poi gli hanno rifilato cinquantasette coltellate, cinquantasette. Poi, freddamente, hanno accusato gli albanesi, scatenando un putiferio di indagini e di ricerche, che però hanno portato al loro arresto. Non so voi, ma il solo riepilogo della vicenda mi fa venire il mal di stomaco, intendiamoci, non è il solito modo di dire, mi viene realmente da vomitare. Adesso quei due rifiuti si sono fatti persone per bene, hanno studiato, imparato, e ricominceranno daccapo, meritano una seconda occasione. Tutti meritano una seconda occasione, tranne la madre di Erika e il fratellino di quattro anni, ammazzati come bestie, ma che dico, nessuno ammazzerebbe una bestia con settanta coltellate. Senza contare il coro di indignazione degli animalisti che si leverebbe al cielo fino agli strati più alti dell’atmosfera e oltre il buco dell’ozono. Oggi chi muore ammazzato entra nelle statistiche, il suo nome viene semplicemente cancellato dalle liste dei vivi e la vita continua. Sarà per effetto dei videogames, dove si impara ad ammazzare figure umane premendo un tasto. Solo gli avvoltoi televisivi le tengono in considerazione, le vittime, secondo una particolare classifica di gradimento, le riesumano come protagoniste di gialli, sbattono sullo schermo testimoni ed esperti, elencano prove e controprove, ripercorrono l’itinerario delle indagini, fanno di una audience un popolo di detective. Giallo, è la parola ricorrente per riferirsi a un omicidio non ancora risolto. Non badano al fatto che il giallo appartiene alla fiction, all’immaginazione, mentre gli omicidi sono reali, la gente viene ammazzata sul serio e va a finire sotto terra. Tutto quello che esce dal piccolo schermo è spettacolo, mira all’audience, morti veri e morti finti si accavallano, si confondono gli uni con gli altri, obnubilano la mente dello spettatore e gli impediscono di distinguere tra i morti che risuscitano nella prossima fiction e quelli che vengono messi a decomporsi in una bara. Credo che sia già tardi per arrestare la confusione che dilaga sovrana, ma vorrei rivolgere un pensiero alle due vittime di questa vicenda, completamente dimenticate, e citare alcuni versi del Foscolo per la morte del fratellino, che potrebbero anche riferirsi al fratellino di Erika, assassinato a quattro anni e da dieci ormai nella fossa. Non vanno letti di fretta, va soppesata ogni parola. Sei ne la terra fredda/sei ne la terra negra/né il sol più ti rallegra/né ti risveglia amor. Se sono scivolato nel tono didattico, devo essermi incazzato sul serio. Il buonismo e la TV sono le più grandi catastrofi abbattutesi sul genere umano, dopo il diluvio universale e prima dell’Apocalisse, e siamo costretti a conviverci come niente fosse. Anche oggi, nessun lavoro alla vela. Si è rotto lo specchietto della macchina, quella con il portabagagli, e non ho potuto portare il pennone sulla spiaggia. Fine della narrazione.

venerdì 27 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Venerdì, 19 marzo 2010
Alla scuola media, quando ero impegnato in certi esercizi di matematica, non vedevo l’ora di poter scrivere la sigla cv.d., con tutto il sollievo che ne derivava. Come volevasi dimostrare, punto e fine dell’esercizio. Il c.v.d. di oggi riguarda l’aggettivo famous che precede last words. Perché le ultime parole restano famose? Perché esprimono promesse mai mantenute. Come volevasi dimostrare, infatti, stamattina sono stato impegnato con mia moglie e della barca mi sono perfino dimenticato. Ho cercato di recuperare nel pomeriggio, ricurvo a novanta gradi sotto il basso terrazzo sul giardino, dove sono accatastati residui di tanti anni di vela spartana, remi spaiati, mezzi timoni, cime, pennoni, vecchi alberi di legno e alluminio, vecchie vele e fiocchi, paioli disastrati e quant’altro di vecchio si possa immaginare. Ho sfilato un pennone dal mucchio, quattro metri e trenta, e l’ho misurato con il lato più lungo del telone. Sapevo già che era di cinque metri, perciò avrei dovuto tagliarne una buona parte. Ho ripiegato il telone in basso e sulla diagonale, secondo le misure, e grossomodo è venuta fuori la vela, cioè un’idea della vela. Tutto sommato, poteva anche andare, avrebbe preso vento a sufficienza. Però sarebbe stato come andare in bicicletta, mentre, impiegandola per tutta l’altezza, mi sarei avvicinato a una moto. Cambiare il pennone, ce ne vuole uno una sessantina di centimetri più lungo. Di nuovo piegato come una squadra sotto il terrazzo, individuo un lungo tubo di metallo che a suo tempo avevo già usato come pennone, molto impropriamente, devo aggiungere, perché non aveva resistito allo sforzo e si era curvato. L’ho raddrizzato, l’ho misurato con il lato del telone e vanno d’accordo come culo e camicia. Per un paio di prove andrà bene. Poi mi sono accorto che gli occhielli sul lato del telone erano troppo distanti. Tentazione immediata di rimandare a domani. Per una strana forza d’inerzia accartoccio invece il telone in macchina e lo porto a una parente che ha un negozio di lingerie, dove vendono pure ago e filo, nastri e articoli del genere e hanno pure una macchinetta per gli occhielli. Ci trovo una ragazza che mi aiuta con fatica a districare il telone e a trovare il lato giusto. Mi aspettavo che mi mandasse a quel paese, invece mi dice di ripassare in serata. Per oggi, non c’è altro che possa fare. Se ne riparla domani. Prima di risalire in macchina, ho incontrato due ragazzi. Ho insegnato a entrambi, erano nella stessa classe e ora sono negli stessi guai. Si sono sposati. Mi hanno parlato dell’Etiopia, in particolare di Lalibela, una città santa che gli etiopi hanno costruito sulle montagne. Non adesso, naturalmente, anche molto prima che gli italiani andassero a rompere i coglioni a quella gente, che combatteva con le lance contro fucili e mitragliatrici. Per ogni nostro soldato che cadeva, loro ne perdevano dieci. Malgrado ciò, non si sono mai arresi. Sarò un codardo ignorante, ma non mi sono mai sognato di andare in Africa, un po’ per paura dei terroristi islamici, un po’ per non fare la fine di Coppi, che dopo tanta gloria è morto per la puntura di un insetto, e un po’ anche sconsigliato da Hemingway, quando scriveva che andava a caccia con le zanzare che gli ronzavano fin dentro le mutande. Lo so che mi perdo un mondo fantastico, ma ognuno ha il diritto di vivere come e dove gli pare. Quei due ragazzi erano tanto entusiasti di raccontare, che sono riuscito a dimenticare il mio Mal d’Africa a rovescio e sono rimasto ad ascoltarli. Mi ha colpito il fatto che Lalibea sia stata una delle prime roccaforti del Cristianesimo, dico, parliamo del tredicesimo secolo, e non so quanta gente l’abbia mai sentita nominare. Le chiese non sono state costruite elevandole dal suolo verso il cielo. Al contrario, sono state scolpite nel tufo a partire dal tetto. Una volta terminato l’esterno, una sorta di immensa scultura architettonica, è stato scavato l’interno. Insomma, ogni chiesa è un monolite. Malgrado i cristiani del luogo siano copti, i due giovani sposi hanno voluto assistere a una messa. All’ingresso hanno ricevuto un bastone. L’hanno preso, chiedendosi cosa avessero dovuto farne, poi si sono accorti che tutti i fedeli ne avevano uno. Il perché del bastone lo hanno capito tre ore dopo, quando la messa non era ancora finita e da un pezzo avevano notato che non c’erano panche né sedie. Li ho salutati con una gran voglia di farci un salto, a Lalibea. Malauguratamente si trova in Etiopia e l’Etiopia sta in Africa e in Africa ci sono le zanzare che ti ronzano nelle mutande e arrivano a pizzicarti le palle.

Diario di un qualsiasi nessuno

Giovedì, 18 marzo 2010. Ci siamo. Alle quattro del pomeriggio ecografia al poliambulatorio e forse finirà l’itinerario del male. Male da virus, naturalmente. Quello da cui non riesco a guarire e non so quando ci riuscirò è l’ansia da computer. Sto facendo qualche piccolo progresso, ma avrei bisogno di un buon manuale, magari di quello per imbranati, ce n’è uno che si chiama così, ma non riesco a trovarlo. Ne ho trovato qualcuno, ma erano per Windows Vista o per Windows 7, di quelli per il mio Windows xp si sono perse le tracce. Per fortuna ho imparato a far funzionare un programma musicale che attenua pericolosi impulsi, dei quali il più ricorrente è quello di consumare una sporca vendetta contro questo scatolone sussiegoso, pieno di fili e congegni elettronici, e sbatterlo contro il muro. In questo momento sto ascoltando i gorgheggi di un’ottima tromba, che si cimenta in brani classici e d’opera e mi libera la mente da input autolesionistici. Ho sistemato la documentazione per avere il permesso d’ingresso al porto, marca da bollo € 14,62, non manca molto che dovremo applicarcela anche dietro il culo ad ogni evacuazione, sono andato in banca a fare provvista per il solito salasso annuale di socio della LNI e utente del pontile di attracco, è arrivato il tecnico della TV e mi ha fatto un preventivo di duecentocinquanta euro per riparare l’antenna, senza neppure sapermi dire se dopo la riparazione il Canale 5 smetterà di trasmettere tanti di fiocchi di neve, ho controllato nel portafoglio che ci sia il denaro per pagare il ticket per l’ecografia, ho comprato il tabacco, le cartine, filtri e bocchini, mi sento nei panni di…come si chiama?, quel comico che fa uno spot con la Incontrada e pare voglia imitare Briatore gettando via bigliettoni come carta straccia. A proposito, carina, Vanessa!, ma questo è un altro discorso. Come al solito, all’ASL non è andata liscia. Sono entrato alle tre e mezzo, l’appuntamento era per le quattro, e ho preso il mio numero di prenotazione. Numero sette. Sul display c’era il numero uno. Un solo impiegato allo sportello. Dopo mezz’ora, il numero tre. Quando il giro delle palle si è fatto vorticoso, mi sono avvicinato e ho chiesto di poter pagare il ticket dopo la visita, se no facevo tardi. Il giovanotto deve essersi sentito in colpa, perché ha subito acconsentito. Poi non ci sono più stati inghippi. Poco ci manca che il radiologo mi chieda che cazzo ci sono andato a fare. Per quanto cercasse, non gli riusciva di rintracciare linfonodi sospetti, tanto che alla fine li ha cercati perfino con le dita. Non ce n’erano. Quando sono andato a pagare il ticket, si era formata una lunga fila e allo sportello, sempre l’unico funzionante, operava lo stesso impiegato. Figurarsi se potevo aver voglia di riprendere il numero e aspettare il mio turno. Sono andato direttamente allo sportello, fornendo sommarie spiegazioni ai più vicini e ignorando gli accidenti dei più lontani e ho chiuso la pratica. Domani mattina vado dalla doc sperando di aver dato abbastanza, in fatto di malattie, almeno per tutto il 2010. Tocchiamo ferro, siamo italiani. Gli inglesi, invece, toccano legno. Se ne imparano di cose, girando per il mondo. Mi sono tanto disabituato all’attività fisica, in questo lungo periodo di inerzia, che muscoli, nervi, tendini e tutto quanto delegato al movimento delle braccia, delle gambe e di tutto il resto del corpo sembrano essersi scollegati dal cervello. Domani mattina alzati presto, dice il cervello, prima che si levi il vento, porta la barca a terra e gratta via quel mezzo quintale di vegetazione tutt’altro che lussureggiante sotto la carena. Me lo ha detto anche ieri sera, ma stamattina mi sono alzato alle nove e avevo ancora sonno. Poi mi dice che è tempo di provare la vela latina, che per poterla provare bisogna prima tagliarla e che è meglio andare a farlo sul posto, prendendo le misure direttamente dalla barca. Anche questo mi ha detto ieri sera, ma a dargli retta non ci pensavo nemmeno, trovavo perfino insopportabile il peso del mio corpo. Forse sto esagerando ma la verità è che non riesco più a muovere il culo. Può darsi che sia stato in apprensione per questa benedetta ecografia, con i linfonodi non si scherza, quando ci sono, ed è anche possibile che fino alle quattro di oggi abbia avuto il latte alle ginocchia. Visto che adesso è quasi ora di cena, che i linfonodi non ci sono e la tensione, se c’è stata, appartiene al passato, non ho più scuse. Domani taglio la vela latina. Sul posto. E non mi si dica che si tratta delle solite famous last words.

mercoledì 25 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Lunedì, 16 marzo 2010. Stanotte mi sono sognato Di Pietro a capo di un manipolo di Valoristi, meglio evitare desinenze compromettenti e cambiare con Valorosi, che imponeva a Bossi e Berlusconi di scolarsi un boccione di purga a testa. Memore della vicenda di Enrico IV che rinunciava a sconvenienti deviazioni religiose in cambio del trono di Francia con la storica frase Parigi val bene una messa! , Bossi affrontava il martirio gridando, con un riferimento che non calzava proprio alla perfezione, La Padania val bene una purga! Gridava come poteva, poveraccio, da quando l’ha colpito il coccolone non è più capace di grandi prestazioni vocali. Berlusconi, da parte sua, spinto a tracannare senza riprendere fiato, provava ogni tanto a togliersi di bocca il collo del bottiglione, ma non faceva in tempo a dire Mi consenta! che glielo ficcavano di nuovo fra i denti. Non si fanno le leggi ad personam!, gli sbraitava contro Di Pietro, e tu lo hai fatto: Confessa! Anche volendo, il Berlusca non poteva proprio accontentarlo, con il collo del boccione che gli arrivava in gola. Confessa! continuava a ripetere Di Pietro, talmente fuori di sé da non rendersi conto che il poveraccio rischiava di morire soffocato e non sarebbe riuscito a pronunciare una sola sillaba. Ma Di Pietro è un giudice, si è studiato le procedure di tutti i tribunali, presenti e passati, e conosce l’importanza di una confessione. Forse aveva bisogno di una confessione per poter esercitare un atto di clemenza. Perfino i tribunali della Santa Inquisizione accordavano clemenza agli eretici che si confessavano colpevoli e si pentivano di aver osato criticare l’Istituzione ecclesiastica. Infatti i non pentiti venivano bruciati vivi. Ai rei confessi, invece, prima di essere gettati sul rogo veniva mozzata la testa. Si dice che i sogni sono determinati da fatti accaduti il giorno avanti o da preoccupazioni per il giorno dopo e, per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare che cosa possa essermi capitato ieri per farmi sognare anche la Gelmini. In costume da befana, volava da una casa all’altra e invece di cenere e carbone metteva nelle calze dei cattivi tanti cinque in condotta. Un gruppetto di presidi buonisti la seguiva di nascosto, per entrare anche loro nelle case e sostituire i cinque con biglietti per viaggi organizzati di penitenti a Medjugorje. Redenzione, invece di Delitto e castigo. Saranno le vicende politiche di questi giorni, sarà il gran casino che riescono a tirarci fuori i media, ma ho una gran paura che senza un sostegno neuropsicopoliticoimmunologico (se no a che serve leggere riviste nella sala d’attesa del dentista?) presto ci si incasineranno anche i sogni. Sarebbe un grosso guaio perché il sonno non sarebbe più, per dirla con Macbeth, il balsamo della quotidiana fatica, ma aggiungerebbe stress notturno a stress quotidiano. Per fortuna a far da contrappeso c’è la barca a vela. Basta solo il pensiero. Nel pomeriggio ho approfittato del sole e della temperatura decente per concludere i lavori indispensabili alla prima prova. Ancora un po’ di pazienza. Il diciotto e l’ecografia sono a un tiro di schioppo e il referto renderà ufficiale il fatto che quei due linfonodi non hanno intenzione di rompere i coglioni. Proprio come sostiene il sottoscritto, che presso la doc gode di credito zero. Devo ancora ritagliare dal telone la vela di prova, ma è questione di poco. Presto saprò se funziona. Oggi ho visto il mio amico pittore. Non è facile incontrarlo, vista la sua esistenza itinerante fra Francia, Germania, Svezia e Italia. Avrei voluto prendere accordi per provare insieme la barca, ma ero in macchina con mia moglie e avevamo da fare. Aveva in testa un cappellaccio calcato sulla fronte e una barba che gli arrivava alla cintola. Un vero artista. Mi piacciono i veri artisti, perché sono davvero liberi e se ne fregano, ma se ne fregano davvero di opinioni e opinionisti. Appartengono alle loro opere, come i colori appartengono alle loro tele. A pranzo ho visto una madre alla TV, che riteneva che la figlia di dodici anni dovesse frequentare un baby beauty center. Le materie, in tali centri, riguardano il trucco al viso, lo smalto alle unghie, l’altezza dei tacchi, le creme di bellezza e forse, chissà, anche il lifting e la liposuzione. Il motivo addotto è che l’apparenza, di questi giorni, la fa da padrona. L’involucro fa sberleffi al contenuto e se non ci si adegua, sono derisioni e insulti. Allora è il livello della griffe che stabilisce quanto vali. Figuriamoci se non vesti griffato. Ma chi erano quei deficienti che si sono tramandati ai posteri per aver sostenuto che l’apparenza inganna, l’abito non fa il monaco, non è tutto oro quello che riluce?

venerdì 13 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Lunedì, 15 marzo 2010
Neuropsicoendocrinoimmunologia. Lo so che è difficile da credere, mo ho incontrato questo mostro sfogliando una rivista femminile, aspettando il mio turno nella sala d’attesa dell’odontoiatra. Mi ha fatto impressione. Basterebbe inserire una decina di tali termini nei programmi di italiano per extracomunitari che aspirano alla cittadinanza per costringerli a una fuga disperata. Frequentando un corso di tedesco al Deutsch Institut fuer Auslaender di Amburgo, ricordo quanto mi facessero incazzare le parole composte anche di quattro o cinque vocaboli giustapposti. Per capire quei mostri occorreva conoscere il significato di ciascuno di quei vocaboli. Siccome ero al mio primo mese di tedesco, non ero ancora pronto per simili esegesi. Così me la pigliavo pure con i tedeschi, perché con una lingua tanto strampalata mi complicavano la vita. E’ passato qualche anno ma, dopo l’incontro con neuropsicoendocrinoimmunologia, forse sono ancora in tempo per fare ammenda e scusarmi con il popolo tedesco per tutte le volte che, scontrandomi con tali paroloni, mi è scappata una parolaccia che di certo non avrebbero gradito. Il fatto è che certi convogli di vocaboli non li avevo mai incontrati. Tutto cambia, le lingue cambiano, certe diventano addirittura più facili, in Inglese, per esempio, certe regole diventano mano a mano obsolete, per la gioia degli studenti, naturalmente, i congiuntivi italiani stanno opponendo strenua resistenza agli attacchi dei talk show, di tanta gente cui è sconsideratamente consentito di apparire in televisione, non solo, ma anche di parlare in televisione, di modernisti ad ogni costo, di scrittori e giornalisti apostati, di tutti coloro che rifiutano il difficile perché il facile è più facile. Ripensandoci, il termine neuropsicoendocrinoimmunologia appartiene a un linguaggio medico specialistico che non è necessario divulgare al popolo e mi sto preoccupando per niente. Però non avrebbero dovuto scriverlo in una rivista femminile, dove sia i problemi trattati sia il relativo linguaggio erano meno aggressivi. Si parlava per esempio dell’herpes, e di pressanti problemi ad esso collegati. Una ragazza era piuttosto preoccupata, per citare un caso, perché non sapeva se con l’herpes al labbro poteva fare pompini. Una preoccupazione legittima, niente da dire, espressa in modo semplice, con niente che lasciasse presagire una simile impennata del linguaggio proprio nella stessa pagina. Era una ragazza che voleva apprendere e il medico era molto coscienzioso nel rispondere, e semplicemente le spiegava che se fosse stata lei ad offrire sesso orale con un herpes alla bocca, avrebbe dovuto evitare al suo partner futuri pentimenti e colorite recriminazioni, e magari anche qualche irripetibile epiteto nei suoi confronti, proteggendolo con un profilattico. Tutto sommato, a lui andava bene. Per lei invece sarebbe stato più complicato nel caso inverso, spiegava il medico, che non intendeva tralasciare nessun dettaglio. Infatti, mancando di sostegno per il preservativo, avrebbe dovuto aspettare di ricevere sesso orale fino alla guarigione dell’herpes. Sfigata, ma il medico non l’ha scritto. Tornando a parlare di linguaggio, di quando in quando gli speaker della TV fanno scoperte incredibili di parola nuove, ma credo di averlo già scritto. Ricordo un tempo in cui non c’era uno speaker che non trovasse il modo di pronunciare la parola inglese escalation. La ficcavano dappertutto, e mano a mano che il tempo passava, la pronunciavano in modo sempre più orribile. Ma quanto potrebbe costare alla RAI o a Mediaset un consulente linguistico? Ci sono un sacco di insegnanti a spasso, una massa di stranieri che parlano un ottimo inglese, macché, strafalcioni dopo strafalcioni, ad ogni trasmissione, per la disperazione degli insegnanti, quelli occupati, che hanno perfino dovuto imparare a far funzionare i computer per mostrare scene e dialoghi originali. Quello che si ascolta in TV, che piaccia oppure no, rimane impresso a fuoco, viene subito assimilato e ripetuto a scuola e altrove. Ma quanto può costare un (dico uno, perché basta e avanza) consulente linguistico? Credo di essermelo già chiesto, ma credo anche che non ci sarà mai risposta e tanto meno che ce ne sarà mai uno e che, quanto alla pronuncia di parole straniere, dobbiamo rassegnarci ad ascoltare una infinità di cazzate all’infinito.

martedì 10 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Domenica, 14marzo 2010
Mi sono svegliato alle sei meno un quarto, ho cercato di riprendere sonno, ma non c’è stato verso. Appena sveglio mi viene sempre voglia di caffè, riflesso condizionato, perciò sono sceso a farmene uno bello robusto. Aspetto sempre che arrivi il diciotto, per l’ecografia ai linfonodi, poi torno dalla doc per una revisione generale. Una sorta di tagliando. Se va tutto bene, mi riprendo la libertà di respirare aria inquinata all’aperto. A proposito, devo fare il tagliando anche al fuoribordo, o va a puttane la garanzia. Se ne parla dopo il diciotto. La libertà, bella parola. Tutti la vogliono, ma pochi se la sanno tenere. Ieri ho sentito uno che ce l’aveva con il primo ministro e diceva che se lo avesse incontrato gli avrebbe…, poi si è ricordato che veniva ripreso e ha concluso dicendo che non lo sapeva neanche lui cosa gli avrebbe fatto. Dall’espressione si capiva che non lo avrebbe invitato a bere un caffè. Prima possibile deduzione. Libertà vuol dire che si è liberi di spaccare la faccia a chiunque non la pensi come noi. Conoscevo uno studente che esigeva venisse rispettata la sua libertà, perciò entrava e usciva dall’aula a piacimento e, se interrogato, si guardava dal riferire sul programma e cercava di impegnare l’insegnante in discorsi su una filosofia mal digerita. In genere, però, preferiva evitare le interrogazioni rimanendo assente e lasciando agli altri la patata bollente, insomma, era una rottura di palle perfino per i compagni. Seconda possibile deduzione. Libertà significa poter ignorare le regole che disciplinano i comportamenti in un consesso sociale grande o piccolo e fregarsene di mettere altra gente con il culo sulla graticola al proprio posto. Chi si droga o va in cerca della sifilide o dell’AIDS può farlo solo perché è libero di farlo. Terza possibile deduzione. Libertà significa avere facoltà di ridursi alla condizione di rottame umano, inquinando senza scampo le vite degli altri, della famiglia. E’ consuetudine, durante le gite scolastiche, che gli studenti passino la notte ad ammucchiarsi nelle camere, a rincorrersi nei corridoi, a gridare come forsennati, a danneggiare le suppellettili dell’albergo, a mettere in agitazione gli insegnanti e chi studente non è più e vorrebbe riposare, e anche il personale dell’albergo, costretto a sorbirsi un mare di telefonate di protesta. Quarta possibile deduzione. Si può rompere i coglioni al prossimo impunemente, in nome della libertà. La politica di oggi è un gioco al massacro, gli avversari politici sono diventati nemici da uccidere, non c’è più Parlamento senza insulti e anche qualche scazzottata. Se tutto questo accade, è solo in nome della libertà, naturalmente. Forse andrebbero istituiti corsi intensivi, per giovani e vecchi, per chiarire una volta per tutte se da una libertà tanto sbandierata può scaturire un casino del genere. Se interroghiamo la storia, la risposta è sì, basta ripassarsi gli accadimenti dei primi venticinque anni del secolo scorso. Per inciso, siamo nel decennio del nuovo secolo, le premesse non sono buone. La vera domanda è cosa può scaturire da un casino del genere. Anche questo ce lo dice la storia. Senza fare troppa distinzione fra rossi e neri, perché i primi volevano consegnarci a Stalin, i secondi a Hitler, l’Italia ha subito una dittatura e non ne ha subito un’altra dopo la guerra solo perché i tanti lutti, le privazioni e le distruzioni avevano ricordato a molti italiani il vero significato della libertà. Ora mi pare che siamo punto e daccapo. E suona come idea balzana una libertà che è fatica, responsabilità, rispetto della propria dignità e di quella degli altri, impegno di non invadere spazi altrui, e che, in dose incontrollata, provoca bruciature di primo, secondo e terzo grado e può spedirti all’inferno. Un concetto semplice, che dovrebbe essere incluso nei programmi ministeriali come materia propedeutica e imprescindibile. Esiste tuttavia un segnale di allarme contro gli abusi. Scambiarsi i ruoli. Come si sentirebbe quel tizio in TV, incontrando un energumeno che gli spacchi il muso; cosa proverebbe lo studente in libertà, al posto del compagno interrogato in sua vece perché lui si era concesso una licenza; come si sentirebbe chi si droga, al posto del padre, della madre, di chi aveva in lui un minimo di stima; come, i politici, immaginandosi nei panni di tutti coloro che per la preziosa libertà si sono fatti ammazzare, e all’uso molto improprio che ne viene fatto in Parlamento? Cattolici o non cattolici, basterebbe ricordarsi di non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Sembra facile, ma noi siamo gli esseri umani, specialisti nel tramutare cose scontate in difficoltà insormontabili, se c’è di mezzo il tornaconto.

venerdì 6 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Sabato, 13 marzo 2010. Ieri ho finito di risolvere l’enigma dell’uomo ucciso misteriosamente nel suo appartamento, chiuso a chiave dell’interno e con la catenella di sicurezza alla porta. Un breve giallo di una ventina di cartelle, come richiesto per il concorso. Scorre liscio come l’olio dal principio alla fine. Il miglior test per i miei scritti è farli leggere a mia moglie. Chissà per quale motivo, per anni non ha neppure voluto vederli. A lei piacciono i gialli pieni di mistero, dove il detective è un deus ex - machina che si affida a una logica serrata e alla fine riesce sempre a risolvere i casi più intricati. Io ho sempre preferito il giallo moderno, pieno di azione e di rischio. Poi c’è stata una svolta. L’ho convinta a leggere gli ultimi tre romanzi e le sono piaciuti. Erano più vicini al suo immaginario e al suo gusto. Quasi non ci credevo. Da allora mi legge più volentieri, ma è sempre molto critica. Di conseguenza, se capita che esprima un giudizio positivo, come potrebbe essere Mi è piaciuto, l’ho letto volentieri, per me sono campane a festa. Con il passare del tempo, mi sono tolto il vizio di progettare letture per gli amici, perché ho scoperto che i più non ne avevano alcuna voglia, spesso non amavano affatto la lettura, ma siccome si sentivano obbligati ad esprimere un giudizio, non potevano evitare di leggerli. Avrebbero anche potuto farne a meno, perché non ne ricordo uno che abbia espresso critiche. Piacevano a tutti, incondizionatamente. Anche se speravo in giudizi positivi, tanto sperticato consenso mi deprimeva. Alla fine ho sospettato che il solo fatto che li obbligassi a leggere fosse per loro una gran rottura di palle. Poi ho provato a mettermi nei loro panni e ho capito di aver ragione. Errare è umano. Cercando di rimediare, ho perfino chiesto dei manoscritti in restituzione, adducendo necessità immediate per improbabili richieste da parte di case editrici. Così non resta che mia moglie. Trattandosi persona che le cose non te le manda a dire, ma te le spiattella in faccia, resterà la mia sola critica a venire. Se ne avrà voglia. Oggi sono andato al corso per il patentino nautico. Devo dire che mi sono divertito. A dire il vero, è stata una lezione a velocità supersonica, diciamo cinque lezioni in una, ma mi sono divertito lo stesso. Il relatore esponeva in modo chiaro, aiutandosi con una lavagna e delle carte nautiche, e riusciva a farsi intendere anche senza rispettare i limiti di velocità. La prima cosa interessante è stata che appena metti piede sulla tua barca, ne diventi automaticamente il comandante e che se pensassi per un attimo al carico di responsabilità che da quel momento ti piove sulle spalle, potresti anche scegliere di andare a farti una nuotata. L’altra cosa interessante è stata la determinazione della rotta. Tutta roba che avevo imparato prima di avventurami in una breve crociera alle Tremiti, tempo fa, ma non ricordavo un accidente. L’angolo di rotta, il nord magnetico, velocità del vento, velocità della corrente, taratura della bussola, molto meno complicato andare in macchina. Poi abbiamo visto come si determina il punto nave, perché può tornare utile sapere dove cazzo sei andato a finire dopo una burrasca che ti ha sbatacchiato per un paio d’ore. Per fortuna, a parte due brevi crociere, è raro che mi allontani un paio di miglia dalla costa, e quando si naviga a vista è come andare in macchina e non c’è bisogno di tutto l’ambaradan. A voler essere onesti, in genere non serve neanche in alto mare, ci pensa il GPS satellitare. Gli dici dove vuoi andare, inserisci il timone automatico e puoi anche sistemarti comodo in cuccetta e rimettere la sveglia. Come si dice, però, il diavolo fa le pigne ma dimentica il coperchio, così anche il GPS può fare brutti scherzi. Allora capita che il comandante si debba proprio mettere a fare il marinaio e se non conosce bene tutto l’ambaradan sono cazzi. Ce ne sono stati di grandi marinai, e ce ne sono, soprattutto velisti. Quando penso a loro, il primo che mi viene in mente è Soldini. Impossibile dimenticare quelle immagini dall’Atlantico, alla TV, mentre affrontava onde di burrasca alte venti metri con il vento a cinquanta nodi, o quando era in testa a una regata oceanica in solitario, e ha ricevuto un SOS di una francese che si era capovolta a trecento miglia di distanza. Non è stato a pensarci e ha invertito la rotta. Non so come abbia fatto, con il mare in quelle condizioni, ma è riuscito a trovarla, l’ha tirata a bordo, ha proseguito la regata e ha vinto. Un gigante. Alla regata partecipava anche un nano, che ha cercato di invalidargli la vittoria con il pretesto che poi erano in due nella barca. Ma la francese non aveva prestato alcun aiuto a Soldini, non poteva, e l’ha sostenuto a spada tratta. Vive la France!

giovedì 5 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Martedì, 9 marzo 2010. C’è qualcosa di nuovo, oggi, alla TV. Sono stati scoperti i bamboccioni. Pare che la gioventù italiana sia un’accozzaglia di bamboccioni. Si tratterebbe di una fascia sociale che va dai venti ai trentacinque, quarant’anni. Comprende nullafacenti, universitari, vitelloni, discotecari a tempo pieno, lavoratori part-time, ma c’è pure qualcuno, non molti, pare, che lavorano e sarebbero in grado di sostenersi da soli, mandando in congedo mamma e papà. Non saprei dire quanti italiani siano inclusi nella categoria, ma devono essere in numero considerevole, se hanno fatto incazzare il ministro Brunetta e opinionisti di rispetto, anche Roberto Gervaso, che in proposito è apparso molto determinato, dichiarando che i genitori dovrebbero togliere loro le chiavi di casa. Quanto al ministro Brunetta, mi pare che abbia espresso il convincimento che sarebbe buona cosa sbatterli fuori di casa a diciotto anni. Naturalmente c’è stata una levata si di scudi, perché in Italia c’è sempre una levata di scudi, ogni volta che vengono proposte soluzioni più o meno drastiche. Il nostro è un paese democratico sul serio, un esempio unico a sostegno del vecchio detto che parla della democrazia come della peggior forma di governo, ma l’unica possibile. E siccome è davvero l’unica possibile per conservarci nella condizione di esseri pensanti - le alternative sono state proposte da Hitler e Mussolini, per parlare di casa nostra e di confinanti, da Stalin, alias Baffone, che sarebbe dovuto venire anche in Italia ma per fortuna ha declinato l’invito di certe frange suicide di casa nostra, da Saddam Hussein buonanima, e continuano ad essere proposte da condottieri come Ahmeninajad, e volendo continuare, rimbalzando dall’Asia all’Africa, l’elenco sarebbe interminabile - dovremo continuare a sorbirci levate di scudi nelle aule parlamentari e nelle piazze. Il guaio è che la levata di scudi è diventata automatica, una reazione normale che però non tiene più conto della validità dello stimolo. Per esempio quale testa di cazzo non riuscirebbe a capire, di getto e senza bisogno di chiarimenti, che il piccolo Brunetta si è concesso licenza di sparare una grossa stronzata, specie quando ha ipotizzato di togliere una cifra dalle pensioni e passarla ai bamboccioni per levarseli dai coglioni? In un paese come il nostro, dove il parlamento soffre di elefantiasi e la burocrazia è sempre attenta, solerte e impegnata a rallentare e a volte perfino a ostacolare l’applicazione di leggi regolarmente promulgate sulla Gazzetta, come avrebbe potuto trovare la strada una tale sventurata ipotesi? Resta il fatto, e questo credo sia un aspetto non trascurabile, che i bamboccioni sono una categoria improduttiva, parassita e costosa. Costosa a mamma e papà, anche in termini psicologici, perché per anni continueranno a chiedersi cosa hanno fatto di male per non potersi godere un po’ di vita indipendente proprio nell’ultimo scorcio, nella fase discendente, quando i padri non dovrebbero più arrovellarsi a capire che cazzo vogliono i figli e le madri rovinarsi la schiena con i panni da lavare, da stirare e i letti da rifare. Credo che a questo punto, se non esiste un motivo più che valido per l’ostinato ancoraggio, si potrebbe davvero ipotizzare un salutare calcio in culo. Categoria incredibilmente costosa allo stato, perché non produce ricchezza, non paga le tasse e sbafa l’assistenza sanitaria. Al confronto, fumatori e obesi sono roba da ridere. In Inghilterra, in Francia, negli Stati Uniti, ma anche in altri stati, se non vengono sbattuti fuori di casa a diciott’anni, poco ci manca. Insomma, quando arriva il momento, glielo dicono a brutto muso. Girando per il mondo, quasi ti sorprende notare che i diciottenni non sono adulti solo perché possono prendere la patente o sbattuti in galera se fanno cazzate. Sono gente responsabile. Si dividono l’affitto di un appartamento in quattro, anche cinque persone, mescolati fra maschi e femmine, nel rispetto delle relative privacy, e lavorano. E studiano. Pare che da noi ci sia un mammismo potente, un ostacolo insormontabile verso una condizione di piena responsabilità per un figlio che dovrebbe vivere con qualche comodità in meno, rispetto ai canoni materni. E’ la verità. Voglio citare ancora Gervaso, perché è un intellettuale serio, perché mi è anche simpatico, perché di solito non dice cazzate e merita considerazione anche quando esagera con una iperbole. Cosa ha detto? Una madre italiana allatterebbe anche un figlio di quarant’anni. Chissà perché ho parlato tanto dei bamboccioni. Ci sono sempre stati, in scrupoloso anonimato. Di nuovo c’è solo il nome. Inutile dire che ne avrebbero fatto a meno.

mercoledì 4 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Lunedì, 8 marzo 2010. Nuvole, continua a far freddo e mi manca il coraggio di uscire a prendere un po’ d’aria. Se mi torna la febbre mi butto dalla finestra. Un gesto simbolico, ho lo studio al pianterreno. La doc. ha chiesto a mia moglie se ho più fatto l’ecografia per i linfonodi. Le ha detto che ho un appuntamento per il 14 aprile. Si è incazzata. Linfonodi del cazzo. Devo fare un salto all’ASL e vedere di anticipare. Se mi presento con il referto, magari si da una calmata. Ieri sono andato al cinema e devo dire che mi sono divertito abbastanza. Sì, malgrado fosse uno degli ultimi film italiani, che, all’uscita, di solito, mi fanno chiedere che cazzo ci sono andato a fare. A parte qualche eccezione, gli attori italiani sono quello che sono. Ogni volta che vedo un film americano, mi viene da piangere, perché istintivamente faccio paragoni e cado in depressione. Siccome la speranza è dura a morire, per fortuna, continuo a vedere anche film italiani. Tornando al film di ieri ho imparato che a qualcuno può scureggiare (sic!) il cervello. Non solo colorita, come espressone, ma anche meritevole di esegesi. Spesso il linguaggio scurrile è più pregnante, più comunicativo. Vediamo di seguire un percorso consequenziale. Se ti scureggia il cervello cosa può uscirne? Di sicuro un gran tanfo, ma nella prospettiva di un futuro quasi immediato, anche merda. Quindi non puoi che pensare o diffondere stronzate. Efficace, sintetico. Perché mi vengono in mente tanti conduttori e conduttrici della TV? Ieri mi ha telefonato mio figlio per farmi sapere che la Biblioteca locale ha indetto un concorso per scrittori di romanzi gialli. Sono andato sul sito. Iscrizione gratuita e scadenza per la consegna dei dattiloscritti fissata per il 5 di giugno. C’è anche un premio di 1.000 euro per il vincitore. Più la gloria, naturalmente. Rimane poco tempo. Di seguito, nel bando, c’era un’informazione interessante circa il numero delle cartelle richieste. Non più di venti. Fattibile. Il fatto è che ho lasciato un romanzo a metà all’inizio della malattia e contavo di riprenderlo da un giorno all’altro, giusto per non perdere il feeling con i personaggi, e anche con la storia. Avevo trovato il modo di sbarazzarmi della testa di una russa decapitata e me lo sono dimenticato. Se aspetto ancora ne verrà fuori un’altra storia. Per giunta, questo diario è diventato una compagnia irrinunciabile, un amico capace di sopportarmi anche quando riesce difficile perfino a me. Un’interruzione sarebbe un tradimento. Dovrei curarmi anche di lui. Vediamo di che razza di giallo potrebbe trattarsi, e come si potrebbe riuscire a incastrare il crimine, l’indagine e la soluzione del caso in venti cartelle. Trenta righe di sessanta battute ciascuna. Occorre un caso semplice.
Una donna fa uccidere un ricattatore dal proprio amante e costruisce una serie di indizi per incolpare il marito. Il marito viene arrestato ma lui, l’investigatore, la inchioda al suo crimine.
Il marito uccide la moglie, ricca ereditiera, e costruisce una serie di indizi per far accusare un’amante scomoda che ha avuto violente discussioni con la moglie e l’ha minacciata di ucciderla davanti a testimoni. La donna viene arrestata ma lui, l’investigatore, inchioda il marito al suo crimine.
La moglie scopre che il marito ha inviato una mail alla sua migliore amica, giovane e anche lei sposata, ma è solo una finzione per spingere la moglie a reagire con violenza e compromettersi in pubblico. In realtà la vera amante dell’uomo è un’altra, molto vicina alla moglie, che con allusioni e insinuazioni la spinge a cadere nell’inganno. Il vero scopo dell’uomo e spingere le indagini per l’uccisione della moglie, crimine che ha già in mente di compiere, verso la sua migliore amica.
Tre trame quasi parallele, buttate giù di getto. Potrebbero anche risultare convincenti. Però mancano di suspence e mistero. Vediamo se mi viene in mente qualcosa di meglio.
Al primo piano di un edificio si rompe una finestra e i vetri cadono sulla strada. Dall’interno proviene un grido orribile e forti colpi, la cui origine è difficile da identificare. Qualcuno chiama la polizia, gli agenti raggiungono il primo piano, identificano la stanza, ma non riescono ad entrare. E’ chiusa. Dopo aver sfondato la porta notano che era stata chiusa dall’interno a due mandate e la chiave era ancora nella serratura. Sul pavimento giace un uomo. Non ha segni di violenza, non ha ferite di nessun genere. Sembra che dorma, ma è morto. La polizia brancola nel buio. Il fratello della vittima vuole saperne di più e si rivolge a un detective privato. Cinquant’anni, poliziotto detective in pensione. Ha un ufficio scalcinato, ma buone referenze. Viene a conoscenza, in qualche modo, dello stato della stanza e dei reperti. Ignote le cause del decesso. A parte i dettagli dei vetri rotti e della porta chiusa dall’interno, nella stanza c’erano una pennetta per computer, che poi era risultata priva di file, una scarpa da donna con il tacco alto, un biglietto da dieci euro proprio accanto al morto e un mazzo di chiavi. Apparentemente non erano stati trovati altri elementi di qualche interesse, tranne un paio di calze da donna, ancora ben chiuse nella confezione di cellophan in un cassetto. Il morto era scapolo e viveva da solo. Mistero e suspence non mancano, anzi. Mutatis mutandis, non resta che risolvere l’enigma in una ventina di cartelle.

martedì 3 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Domenica, 7 marzo 2010
Scirocco e nuvoloni da ponente, niente di buono. Sole a mezzo servizio. Si fa vedere per una decina di minuti, poi corre a nascondersi dietro una nuvola. Temperatura, 9 gradi. Questi sono i dati che un appassionato di vela registra quasi inavvertitamente, appena mette il naso fuori della porta di casa, poi li combina e ne estrae il responso per la giornata. Stamattina, per esempio, si potrebbe anche navigare, ben coperti e con una bella cerata appresso, nel caso i nuvoloni che vengono da ponente si facciano scuri e decidano di guastarti la festa. In genere fai in tempo a rientrare prima dello scroscio, ma se è un giorno di sfiga non ce la fai. Ma non è certo la fine del mondo. Se proprio sei un incosciente e non ti sei portato una cerata o qualche indumento impermeabile, puoi sempre ancorarti e rifugiarti sotto la vela. Se il mare si incazza sul serio e non puoi ancorarti per non rischiare che le onde ti spezzino la cima dell’ancora, o ti sbarbino la bitta di aggancio o ti stacchino un pezzo di prua, allora puoi sostituire l’ancora con un secchio e farti portare dalla corrente. Se la barca è in movimento, non puoi rimanere sotto la vela, perché dovrai anche vedere dove cazzo vai a finire, allora potrai sfilare la vela e avvolgertela intorno al corpo e sopra la testa come un barracano africano. Sarà difficile da credere, ma in tutto questo non c’è niente di drammatico. Solo adrenalina allo sballo, come sulle montagne russe, come farsi scivolare da quaranta metri di altezza all’interno di un mezzo tubo che ti scarica in una vasca a una velocità travolgente – mi è capitato di farlo in un aquapark della Florida - la miglior terapia possibile per gli ingenui che vanno a cercarsi lo sballo nell’alcol, nelle discoteche, nell’ecstasy o in qualcosa di peggio. Va detto che le eventualità citate e le relative contromisure riguardano una barchetta in vetroresina di quattro metri, ovviamente senza cabina e senza un cazzo di posto dove ripararsi. Per uno sballo sano, si capisce a chi mi rivolgo, compratevene una e imparate a governarla. Non è difficile. Potete trovarla, di seconda mano, per poche centinaia di euro, e auguri di cuore. Se arriverete anche voi ad annusare istintivamente il tempo, di primo mattino, uscendo dalla porta di casa, potrete dire di avercela fatta. Mi sento sospeso di una ventina di centimetri mentre la terra mi ruota sotto i piedi, e tutto per colpa di un virus figlio di puttana che ha voluto privilegiarmi eleggendo i miei bronchi a residenza invernale. Spero tanto di averlo sfrattato, ammazzato, disintegrato. Oggi mi tocca l’ultima compressa, poi tornerò a farmi visitare. Spero in una sentenza di scarcerazione. La barca in cantiere ha bisogno dei paioli, di un appoggio per l’albero con la vela al terzo, di due bitte ad anello a poppa per farci scorrere la scotta, di sistemare la cima dell’albero per la vela latina che devo ancora ritagliare dal telone, insomma, di tante piccole cose, mentre io mi sto rompendo i coglioni in attesa di verdetto. Forse sto cominciando a rompere anch’io, ieri con il computer e oggi con la barca. Per fortuna mentre scrivo ascolto un brano di Schumann, che è come ascoltare le acque limpide di un torrentello da trote. L’impervio e imperscrutabile percorso della vita. Riflessione spontanea, quando si pensi che aveva cominciato con gli studi di giurisprudenza, abbandonati dopo un anno per dedicarsi al pianoforte. Una passione violenta. Con esercizi impossibili ai tasti si rovinò un dito e la carriera. Dal tormento emerse il compositore. Forse bisognerebbe evitare di chiedere ai bambini cosa faranno da grandi. Non è una domanda sensata. Per fortuna, loro non lo sanno. Mi piace scrivere ascoltando musica classica. Intendiamoci, sono tutt’altro che un intenditore, ma mi ritengo fortunato perché riesco a godermela lo stesso. E’ come per la pittura. Ci sono opere di artisti, celebrati dalla critica, per lo più intellettualoide, che non mi riscaldano neppure una cellula cerebrale, che non mi invitano che a uno sguardo di striscio, o che perfino mi fanno accelerare il passo. Naturalmente a causa della mia incompetenza. Ce ne sono altre, tuttavia, che starei ad osservare per ore, con istanti di vero godimento, malgrado la mia incompetenza. Sarà perché nutro forti sospetti verso l’arte intellettuale, anche perché stimola gli sproloqui degli intellettualoidi. Come diceva De Chirico, l’arte è contemplazione, godimento nella contemplazione. Lo stesso vale per la musica. Godimento ad ascoltarla, benché profani, o quasi. Per fortuna sembrano tutti d’accordo nel ritenere la musica asemantica, cioè senza significati. In caso contrario, non avremmo avuto speranze contro un oceano di interpretazioni filosofiche, psicologiche, sociologiche e politiche, e chi più ne ha più ne metta. Avrebbero anche potuto toglierci il gusto di ascoltarla.