giovedì 27 ottobre 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Mercoledì, 29 settembre 2010. Domenica scorsa, un po’ discosta dal solito mercatino, era attiva una promozione di corsi permanenti per tutte le materie dello scibile dell’epoca. Fra la miriade dei medesimi, elencati su un paio di enormi poster, ne ho scovato uno che potrebbe anche fare al caso mio. Almeno dovrebbe, considerando che da febbraio aspetto che mi venga completato un sito sul quale avrei una mezza idea di mettere in vendita le mie creature saggistiche e letterarie. Il corso riguarda la creazione di pagine WEB. Ho telefonato per informazioni, proprio stamattina. Centocinquanta euro per un corso di otto mesi, una lezione serale per settimana. All’incirca trentadue lezioni, ventotto se togliamo un mese di vacanze, perché non dubito che ci saranno anche quelle, all’incirca cinque euro a lezione o poco di più. Inizio previsto per l’undici di ottobre. Hanno registrato il mio numero e mi faranno sapere. La cartolina di San Pietroburgo che ho spedito a mio cugino non è arrivata. E ti pareva. Avrei dovuto spedirla dalla Russia. Il francobollo italiano deve aver scatenato nella testa del postino una contraddizione di termini insuperabile. Avrà risolto la cosa cestinandola. E’ un pezzo che non scrivo, perciò cercherò di riassumere. Per frenare lo scarroccio abissale della barca, ho fatto un salto ad una rivendita di legname, a pochi chilometri da casa, in cerca di una deriva salvifica. E’ l’unico posto, nei dintorni, dove il legno, quando possono, te lo tagliano anche a seconda di come ti serve. Sono capitato in un momento di quelli da evitare. C’erano due coppie di clienti, poco ferrati in aritmetica, che non facevano che ripetere i calcoli per decidere come doveva essere tagliato il legname. L’addetto alla vendita non sapeva che pesci pigliare, cercava di aiutarli a tirar fuori le dimensioni giuste, ma alla fine rinunciava perché, anche se il calcolo era esatto, nascevano nuovi problemi e si doveva ricominciare. Smoccolando in silenzio, ne ho approfittato per dare un’occhiata in giro e ho visto una tavola buttata da una parte, apparentemente senza un futuro glorioso, ma per me, almeno per una prova, poteva anche andare. Era un po’ strettina, poco spessa, ma lunga abbastanza. Inaspettatamente uno dei quattro si rende conto che qualcuno si sta rompendo a furia di sentir ripetere che i calcoli sono sbagliati, e non parlo solo dell’addetto alla vendita, mi si avvicina per sapere se posso sbrigare la mia faccenda in fretta. Naturalmente dico di sì, mostro al commesso la vecchia deriva che ho portato con me e gli dico che mi serve una tavola un paio di spanne più lunga. Il giovanotto mi dice che gli spiace ma non ha compensato marinato e non può servirmi. Lo avevo previsto, gli faccio vedere la tavola senza futuro e gli chiedo quanto ne vuole. –Questa?-, mi fa, come se gli avessi chiesto di vendermi un sacchetto di RSU. Poi fa una smorfia, come se stesse facendo un calcolo, ma giunge ancor prima a una conclusione diversa.
-Portala via!-. Fa un gesto con la mano, come se avesse aspettato quel momento per liberarsene. Ringrazio, saluto e me ne vado. Il giorno seguente la provo insieme al timone riesumato. C’è un grecale killer e non è consigliabile uscire per una prova, perciò rimango all’interno del porto. Faccio un’oretta di su e giù fra i pontili che si protendono dalla banchina e dal molo est, ma non riesco a fare una virata. Solo strambate. Continuo a prendere il vento di striscio, la barca si muove malissimo, non guadagno un metro d’acqua, anzi, vengo spinto lentamente verso il molo sud. Fanculo. Ci riprovo il giorno dopo con l’altro timone, quello acquistato con la barca. Sorpresa. C’è uno scirocco debole, ma riesco comunque a rientrare in porto. Anche la prova successiva la faccio fuori del porto, con lo scirocco a venticinque nodi e un mare seriamente incazzato. La barca prende più vento, orza e guadagna acqua. Incredibile, ma dopo un po’ riprendo a smoccolare. Non vira. Ci provo e ci riprovo. Non vira. Insisto e mi salta l’attacco della scotta al pennone basso. Ammaino tutto l’ambaradan, torno con il motore verso terra a mi attacco a una boa, sparuta superstite fra quelle che ancora un mese fa ballonzolavano garrule sulle onde, tutte bene allineate e impegnate ad indicare il limite di balneazione, e allo stesso tempo il limite oltre il quale le barche non potevano spingersi verso terra. Rimetto a posto la scotta e di nuovo isso la vela. Di nuovo sento che la vela fa il suo lavoro, anche se non proprio fino in fondo, ma di certo la barca orza a sufficienza per vincere la corrente e rientrare contro vento. Per una poggiata fatta con noncuranza e poco riuscita, rischio di abbordare due poveri cristiani che se ne stanno all’ancora, protetti dal molo, a pescare. Gli sono passato tanto vicino da vederne le facce stralunate, ma niente botto. Ho riprovato a virare. Una, due, tre, quattro cinque volte, alla fine mi sono rotto le scatole. Per tornare avrei dovuto strambare, ma, con quel vento chi me lo faceva fare? Quando la vela non va bene, in particolare, il boma si oppone alla strambata, poi, quando il vento non gli lascia scampo, piomba sull’altro lato come una mazza da baseball e fa del suo meglio per spaccare teste e rovesciare imbarcazioni. Per quanto mi riguarda, il collaudo a venticinque nodi è finito e posso rientrare. Il risultato e che con la nuova deriva provvisoria e il timone di fabbrica le cose sono migliorate. Resta il problema della virata.
Quando ci rimetto le mani, decido di allargare la tavola di quel tanto che le consenta di occupare tutto l’alloggio della deriva. Dovrò razzolare fra i ritagli di legname, che conservo scrupolosamente in un angolo del garage. Prima o poi mi tornano utili. Devo dire che mia moglie, che vede ordine e pulizia quasi in cima alle priorità dell’esistenza, considera la cosa da un punto di vista diverso, ma questa è un’altra storia. Ci riprovo con una ventina di nodi, sempre scirocco, per un collaudo sono sufficienti. Con la deriva allargata, la barca continua a stringere il vento leggermente in eccesso, ma, udite, udite!, riesco a virare. Ci provo e ci riprovo e quasi non ci credo. Questo lungo tormentone è ormai prossimo alla fine. Sulle ali dell’entusiasmo riprendo la vela latina. Sono sicuro che con la nuova deriva funzionerà, e infatti funziona. E mi piace da matti. Ieri la fornaia si è sbagliata a fare i conti e mi ha fatto uno scontrino con un euro in più. Per sdrammatizzare le ho detto che l’errore ci rende umani e ho anche aggiunto, chissà per quale ispirazione, che la perfezione è nemica della felicità. Lei ha osservato che la felicità non esiste, e io non ho voluto contraddirla. Volendo considerare la felicità una condizione stabile, una volta raggiunta, aveva sicuramente ragione, ma avrei potuto dirle che esistono le piccole felicità, che ci capita di provare, a volte, anche se non tanto spesso, e che la felicità che a ciascuno è riservata nella vita non è altro che la somma di tante piccole felicità. Se l’ho fatta tanto lunga è stato solo per spiegare al meglio come mi sono sentito dopo l’ultimo collaudo e dopo la prova con la vela latina che mi piace un sacco. Pare che i miei rapporti con la fornaia mi spingano a considerazioni filosofiche. Ieri mattina sono andato a comprare il pane senza portafoglio. Era rimasto nei pantaloni che mi ero cambiato prima di uscire. Oggettivamente niente di grave. Ho fatto un salto a casa, abito a due passi, ho ripreso il portafoglio e sono tornato a pagare. Un inconveniente di cinque minuti. Stranamente, però, mi è tornato alla mente il mio primo esame universitario. Era un esame di Filosofia, con un corso monografico su Sartre.Il titolo era “Gli altri in Sarte”. E’ lo sguardo degli altri, quello che incute maggior timore. Lo sguardo che reifica, ti rende cosa immutabile e senza divenire. D’altronde anche il mio sguardo, diretto verso gli altri, tende a conferire tali contorni. Chissà che anche la fornaia non mi abbia cosificato per sempre come smemorato deficiente. Per fortuna lo sappiamo tutti che da ogni percezione impariamo qualcosa sull’altro, e che in genere niente ci appare in un unico momento sotto tutti i suoi aspetti e da tutti i punti di vista. Questo è senz’altro consolante, ma confesso che a volte non posso evitare che lo sguardo e l’udito prendano il sopravvento su ragione e filosofia. L’altra sera, passando da un canale all’altro, mi è apparsa una scena, solo per un attimo. C’era un tizio, probabilmente un giornalista di ultima generazione, con una faccia che, se richiesto e limitatamente alle mie discutibili capacità di giudizio estetico, avrei detto un incrocio fra un maialino e un ippopotamo in amore. “Parleremo di mamme assassine!”, annunciava festoso, esultante nel dare una notizia tanto gratificante, agitando le braccia plaudente e sollecitando nel contempo il plauso di una audience con seri problemi di convivenza sociale, di certo acquisiti per contagio televisivo. Confesso che il mio sguardo (confortato dall’udito) lo ha cosificato seduta stante. Se lo rivedrò, mi apparirà come oggetto di natura organica, forma approssimativamente cilindrica, più o meno lungo o spesso, odore più o meno repellente. Che altro merita di essere ricordato di questi ultimi giorni? Dunque, sono andato a vedere un film che parlava di solitudine e di numeri primi, e ho avuto quello che mi meritavo. Quando intorno ad un romanzo o un film spira aria intellettuale, meglio evitare. A parte l’azione di una lentezza esasperante, non si capiva una parola. Pare che oggi agli attori non serva più studiare dizione, perché i registi illuminati preferiscono che si esprimano al naturale. Il risultato è che per seguire la trama occorre un faticoso lavoro di intuizione. Chi paga il biglietto potrebbe anche farne a meno. Che altro? La prima sconfitta dell’Inter. E’ già aria di crisi e ci sono problemi di spogliatoio. Forse è cominciata la fase discendente. Stasera c’è il secondo incontro di Champions. Staremo a vedere.

venerdì 21 ottobre 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Mercoledì, 14 settembre 2010. Ieri l’altro ho voluto provare di nuovo la vela, quella di cotone, con il vecchio timone riesumato. Ci ho provato ieri mattina. Sono uscito in mare alle dieci. Due nodi di vento, forse meno. Ore undici, ancora due nodi, forse meno. Ore dodici, sempre due nodi, forse meno. Avrei dovuto portare le canne da pesca. Ci ho riprovato nel pomeriggio. Senza farla tanto lunga, non è arrivato un filo di vento e prova impossibile. Nuovo tentativo ieri mattina, verso le undici e mezzo. Onde in rapida successione, molto alte, che tiravano a diventare veri cavalloni. Le bandiere sembravano garrire al vento, ma solo da lontano. A guardarle da vicino, non erano molto convinte. Comunque sono uscito a motore, mi sono allontanato dal porto a sufficienza per non farmi fregare dal vento che soffiava proprio contro gli scogli. Naturalmente anche le onde correvano in quella direzione, ed erano anche più pericolose, ti spostavano di dieci metri ogni cinque secondi. Arresto il motore e mi alzo in piedi per issare la vela. Però manca qualcosa. Il vento. Neanche otto nodi. Era calato ancora dopo che ero uscito dal porto? In ogni caso, le onde venivano da lontano e niente avevano a che fare con quel vento sifilitico. Issare una vela su quelle onde con quel poco vento era come volersi fare una nuotata contro corrente nel Canale Villoresi. Per chi non lo conoscesse, si trova poco sopra Milano. Ho lavorato per sette mesi, a Milano. Vita frenetica. Al canale andavamo a rinfrescarci d’estate, quando in città si boccheggiava. Ci si tuffava da incoscienti e poi, il tempo di andar giù e di riemergere, avevi già fatto cinquanta metri e se non eri svelto ad aggrapparti ai ferri, in alto, che ancora uscivano dall’invaso in cemento armato, rischiavi di scorrere a valle per qualche chilometro. Qui avrei rischiato di trovarmi addosso agli scogli in meno di cinque minuti e sarei dovuto ricorrere al motore, ma in casi del genere il motore fa sempre cilecca. E’ una regola. Ogni sport comporta un elemento di rischio, anche quelli che si praticano da soli, senza spari alla partenza o sventolio di bandiere sugli striscioni. Farà ridere, ma perfino il jogging comporta qualche rischio. Ogni tanto c’è chi ci rimane stecchito. Valutare la situazione e vedere se non è meglio lasciar perdere e sperare migliori fortune per il giorno appresso. Ho riavviato il motore e sono tornato in porto. Se non ci rispettano gli altri, rispettiamoci almeno da soli, se della nostra vita sembra non freghi più niente a nessuno, vediamo di curarcene almeno noi stessi. Quando dico che della nostra vita non frega più a nessuno, non mi riferisco solo alla gente che viene ammazzata per strada, in casa, sul posto di lavoro durante qualche rapina, negli ospedali per trascuratezza o per incompetenza. Mi riferisco anche a chi perde la vita in competizioni sportive. Lo spettacolo deve andare avanti. In Qatar un giovane centauro di diciannove anni è rimasto schiacciato da due moto che lo hanno investito alla velocità di duecentocinquanta Km. all’ora. Tutto documentato con foto e riprese filmate. Agghiacciante. Con il bacino, lo stomaco e il torace schiacciati è stato portato all’ospedale, incredibilmente ancora vivo, ma è stata questione di un’ora. Poi è morto. Gli organizzatori sapevano che sarebbe morto di lì a poco, ne hanno anche avuto la conferma un’ora più tardi. A nessuno è venuto in mente di fermare la corsa e lo spettacolo è andato avanti fino alla fine. “Non c’era pericolo per gli altri”, questa la motivazione. Forse la morte di un diciannovenne avrebbe meritato maggiore attenzione. Comincio a pensare che su questa terra siamo davvero in troppi e che guerre e terremoti, maremoti ed eruzioni vulcaniche, inondazioni, o meglio esondazioni, come piace divulgare ai media, non siano più sufficienti a ristabilire un equilibrio sempre più distante. Parallelamente all’attivarsi di un meccanismo di autodistruzione, deve anche essersi sviluppato un senso di noncuranza verso le morti violente. Se è vero, si è trattato di un processo inconscio. Il pericolo si presenterà alla naturale conclusione del medesimo, quando ne prenderemo coscienza. Auguriamoci che non arrivi il giorno in cui si esulterà al grido – Uno di meno!- Ieri pomeriggio ho fatto un nuovo tentativo, con una quindicina di nodi, con il risultato che la barca andava bene con le mura a destra e malissimo con le mura a sinistra. Mi sono scervellato per capirci qualcosa, poi stanotte ho avuto una specie di rivelazione. Eliminare la trozza e avanzare gli attacchi dell’argano sui bordi. Stamattina ci ho riprovato. Non è andata male, diciamo meglio di sempre. Dovrò lavorarci ancora un po’.

giovedì 20 ottobre 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Domenica, 12 settembre 2010. Ieri sono state commemorate le migliaia di vittime del crollo delle torri al Rockfeller Center di New York. Da qualche parte nel mondo sarà stata una festa. Umanità strana. Un prete pazzo si era proposto di bruciare in pubblico il Corano. I media ci si sono buttati a capofitto e ne hanno fatto un evento epocale. Qualcuno, nel Medio Oriente, ci ha lasciato la pelle. I media operano in base al diritto all’informazione, una specie di trincea inattaccabile. Pare che sia un baluardo della democrazia, anche se fanno ammazzare qualcuno. Se ti azzardi ad aprir bocca ti etichettano come fascista. Per questo nessuno si azzarda ad aprir bocca. Specie i politici. A volte tutto finisce a tarallucci e vino, a volte no, e ci scappa il morto, che avrebbe rinunciato volentieri ad essere informato. I media hanno rotto i coglioni, forse non fa notizia, ma lo scrivo nel rispetto del diritto all’informazione. Chi cavolo sarà stato a mandare proprio sulla Terra questa disgrazia dei media, in particolare questo agente corrosivo delle umane menti che è la televisione? Cerchiamo di capirci, non mi sto chiedendo chi l’ha inventata, perché sarebbe facile risalire perfino ai primordi, quando sarà di certo stata salutata come una sorta di divinità buona, che miracolava l’umanità prolungando il limite della vista fino al più sperduto buco dell’orbe terracqueo. Basterebbe chiedere a Google. Mi riferisco, piuttosto, ai misteriosi equilibri dell’universo, insondabili, che determinano i terremoti e la marca dell’acqua minerale che decidiamo di acquistare al supermercato, di chi è destinato a bere quella avvelenata e di chi no. Il solo figlio di puttana a cui riesco a pensare è il Demiurgo. Secondo gli Gnostici, è stato lui, una sottospecie divina, a creare il mondo, e ci ha anche scaraventato miliardi di uomini e donne a cercare di essere grandi, ricchi, indipendenti ed infelici. A volte, di questi tempi, mi vien da credere che gli Gnostici un po’ di ragione ce l’avessero. Come fa un Dio buono, a creare un’umanità tanto perversa? Anche il concetto della retribuzione celeste -mi comporto bene e vengo premiato, mi comporto male e vengo punito- indurrebbe alla discussione, se non fosse così sgradevole, per un cattolico, pure se non osservante, essere tacciato di eresia. E’ consolante, tuttavia, che a Giobbe una tale accusa venne risparmiata. Nonostante il suo amore per Dio, Giobbe perse tutti i suoi beni e il suo corpo fu coperto di piaghe. Pare anche che la pazienza di Giobbe non fosse inesauribile, come è stato tramandato di generazione in generazione, perché alla fine, unico fra i mortali, non riuscendo a comprendere come la retribuzione celeste si muovesse all’incontrario, chiamò Dio in giudizio. Ovviamente Dio non entrò nel merito, limitandosi a mostrargli la grandezza della creazione e la pochezza, al confronto, delle sue lamentele. Ma non lo punì, anzi, lo premiò. Purtroppo per noi, le vie del Signore sono imperscrutabili. In ogni caso, che gli Gnostici avessero o no un po’ di ragione, oggi ce l’ho con la televisione, con il Demiurgo e con quella puttana di Sofia, sua madre. Per la verità, Sofia apparteneva a una categoria di spiriti che si riproducevano per partenogenesi, perciò chiamarla puttana sarebbe improprio, ma sono in pochi a saperlo e può andar bene lo stesso. Del periodo di cui è orbo il diario ricordo ben poco. Un paio di giorni fa ho provato una vela di cotone, più grande, pennoni più lunghi, ma il risultato non è cambiato di molto. Scarroccio abissale. Ormai sono convinto che si tratti del timone. E’ profondo abbastanza, ma mi pare troppo stretto, e non collabora con la deriva a mantenere la barca in assetto. Ieri ho riesumato un vecchio timone. Ha giaciuto per anni fra reliquie e cimeli del mare e davvero non mi sarei sognato che avessi potuto trovarlo ancora di qualche utilità. Ho speso più di mezza giornata per adattarlo e poterlo infilare in qualche modo dietro la poppa. Stamattina ho fatto una corsa al porto e l’ho innestato. Perfetto. Ma si tratta di una sistemazione precaria che reggerà solo per qualche prova, con mare appena increspato e poco vento. Stamattina invece il mare è mosso, anche parecchio, e un venticinque nodi di Tramontana tirano a farlo incazzare anche di più. Prova rimandata. Finalmente mi sono ricordato di comprare un francobollo e ho spedito una cartolina di San Pietroburgo a mio cugino. Il francobollo e il timbro postale gli sembreranno un po’ fuori latitudine, ma gli uffici postali, all’estero, non sono tutti dietro l’angolo.

mercoledì 19 ottobre 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Mercoledì, 1° settembre 2010. Cercare le informazioni sul sito. Ma se sul sito non ci sono, dove cazzo le andiamo a trovare? Accidenti a me e al momento in cui ho consigliato a mia figlia di darsi all’insegnamento. In questi giorni ci sono le assegnazioni di spezzoni per i precari, ma conoscere le date di convocazione per le diverse classi di insegnamento è come voler chiedere la combinazione del caveau di Forte Knox. Se telefoni in Provveditorato non rispondono e se rispondono non sono le persone giuste e aggiungono confusione alla confusione. Abbiamo passato una mattinata al telefono senza cavare un ragno dal buco. Nel pomeriggio sono andato a provare la barca, incazzato nero. Di tutte le disgrazie previste, lo sfilarsi dell’albero, cedimento dello strallo, ecc., non se ne è verificata nessuna, però si è divelto l’occhiello che assicura il timone alla poppa e sono andato a collidere contro il motore di un motoscafo. Quando piove sul bagnato non c’è via di scampo. Quanto alla barca, andava meglio, ma ancora non va bene. Dovrò spostare l’albero ancora più avanti. Adesso sono le quattro e un quarto e sono più incazzato di stamattina. Per sbollire in fretta e riportare l’umore sotto livelli di guardia ho messo un DVD con le note di Smetana, Dvoràk e Mussorgsky. Se non mi aiutano loro, proverò con l’inflazionato Chopin. Dubito che ce la facciano, perché questa non è una semplice incazzatura, ma un accumulo. Ho già detto dei dati fantasma al computer, della rottura del timone e della collisione con il motore del motoscafo. Non ricordo di aver scritto nelle pagine precedenti che giorni orsono sono andato a visualizzare un sito a mio nome, la cui preparazione va avanti da mesi, uno di quelli per la vendita di libri (nel caso specifico si tratterebbe dei miei) che si scaricano direttamente appena effettuato il pagamento con carta di credito. Volevo solo controllare se il programmatore era andato avanti nella preparazione, o se le cose erano ancora allo statu quo. Invece del mio sito trovo la bandiera della Palestina e un Hacher che mi chiede pure di contattarlo e mi lascia l’indirizzo. Vuole che risponda al suo messaggio, che vaneggia in questo modo:


!OWNED BY TEAM MOSTA !!
________________________________________
READ /;
Poi continua:
I AM AN ALGERIAN ATTACKER I WANT SAY FUCK SECUR!TY OK ADMIN ..CYBER CRIMINEL.. MUSILMAN SAY GOD IS BEST NO CHILDREN ,,,, FOR ALL MUSILMAN AND ALL ALGERIAN ,,


Quanti siti ci saranno al mondo su Internet? Non ce n’era un altro da attaccare, magari più impegnato politicamente? Cosa devo rispondergli? Forse che non è questo il modo di trovare simpatizzanti per la sua causa. Comunque, avendo già dissertato sulle incazzature in una pagina precedente, non voglio dilungarmi. Cambiamo argomento. E’ probabile che la musica di quei tre signori abbia prodotto qualche effetto emolliente e che riesca a farmi venire in mente qualcosa di più stimolante. La cattedrale dell’incoronazione, per esempio, all’interno della fortezza del Cremlino, dove venivano incoronati gli zar. A parte le attrattive architettoniche, all’esterno e all’interno, quello che ti colpisce appena ci metti piede è la miriade di icone che ricoprono le pareti. Una vertigine di immagini e di colori. Ogni centimetro adorno di tali toccanti decorazioni. Le icone non sono dipinti. Sono finestre che si aprono sullo spirito, lasciando che vi entri l’anima religiosa del popolo russo. Per questo mi incantano e mi commuovono. E se i russi cercano di impedire che vengano trafugate all’estero, bisogna capirli. Sono frammenti della loro anima.

lunedì 10 ottobre 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Martedì, 31 agosto 2010. Ieri è piovuto tutto il giorno e alle undici e mezzo di sera ho dovuto fare una corsa al pontile a sgottare, sperando che gli scrosci fossero cessati lasciandomi dormire in pace. Forte vento e mare agitato. Malgrado ciò, le barche che riposavano riflettendo i bagliori delle lampade sui pontili conservavano un loro misticismo romantico. Abitare in una barca. Un sogno impossibile sin da quando è comparso. E’ arrivato in ritardo, avevo già famiglia. Ma ha conservato tutto il suo fascino, perché è rimasto un sogno. Comunque, ieri notte non è piovuto e neppure stamattina. In cielo, qualche chiazza di sereno, ma per lo più enormi nuvoloni scomposti. Una catena di nuvole basse lungo l’orizzonte, che di solito non portano niente di buono. Il vento viene dai quadranti settentrionali, ma è freddo e non mi pare proprio che abbia intenzione di fare pulizia. Nel pomeriggio farò una scappata al pontile. Smanio dalla voglia di provare la nuova sistemazione dell’albero, ma il mare sarà proibitivo. Forse mi riuscirà di farlo all’interno del porto. Basteranno cinque minuti. Complice il maltempo, ho scritto la parola fine del mio racconto thriller e lo inserirò nel blog nei prossimi giorni, dopo una bella ripulita. Devo dire che mi ha fatto tornare la voglia di scrivere, ma ancora non riesco a rimettere le mani sul romanzo lasciato a metà. Forse dovrò scriverne un altro, di racconto, o tutta una serie, prima di riuscirci. Tutti quei personaggi, come ibernati in situazioni scabrose, hanno bisogno di riprendere vita, o si sentiranno abbandonati e cominceranno ad apparirmi come incubi notturni. Da Mosca a San Pietroburgo ci siamo trasferiti in treno. Per dire la verità mi ero preparato alla grossa scocciatura di uno sballottamento di otto ore, esperienza che avevo scartato nel ’92, anche perché a quell’epoca, a Mosca, i malviventi erano costantemente dietro l’angolo e c’era anche il rischio di assalti ai treni. Attualmente, invece, l’ordine pubblico nella città appare perfettamente ristabilito, tanto che, difficile da credere, lo scippo è inesistente. Insomma, la sorpresa è stata di ritrovarmi comodamente seduto in un treno modernissimo, con il muso aerodinamico come quello di un jet, e di essere sceso alla stazione di San Pietroburgo dopo quattro ore di viaggio sul velluto. Il primo avvertimento è stato di fare attenzione agli scippatori, perché non siamo più a Mosca e da queste parti rigurgitano. A parte questo, la città si è rivelata all’altezza delle aspettative. Moderna, superba. Voluta da uno Zar sopra fiumi e canali come baluardo contro gli attacchi di altri popoli nordici che precludevano alla Russia uno sbocco sul Baltico, era stata paragonata dal medesimo a una nuova Amsterdam e così avrebbe desiderato che fosse vista da tutti. . Purtroppo si sa bene che l’uomo propone ma non è lui a disporre, pur trattandosi di uno zar. La conseguenza è che il paragone con Amsterdam non sfiora la gente neanche di striscio e questa magnifica città si continua a chiamarla la Venezia del nord. I sontuosi palazzi lungo le rive dei fiumi e dei canali sono tutti della stessa altezza e sembrano una sola, immensa e magnifica costruzione. Questo perché per nessun edificio, fino a una certa data, fu mai autorizzata un’altezza superiore a quella del palazzo dello zar. Si deve dunque a tale forma di rispetto, forse anche di presunzione, uno degli aspetti più caratteristici della città. A sentire i tanti nomi di architetti italiani collegati alla progettazione di palazzi, fortezze e monumenti, c’era da farsi venire le lacrime. Per non parlare del rispetto con il quale la guida scandiva i loro nomi. Di cosa potremmo andare così orgogliosi, oggi? Di fatto, alla sfilata di bellezze architettoniche che offre il giro dei canali in motoscafo non regge il confronto il giro sul Danubio a Budapest, a Salisburgo, né quello sulla Moscova, forse neanche la passeggiata sul bateau mouche lungo la Senna. Quando poi il motoscafo esce sulla Neva, che in quel punto si allarga a dismisura, tanto che per qualche istante si può anche credere di trovarsi sul mare, è tutto uno scintillio di acque, attorniate da fortezze e attraversate da lunghissimi ponti levatoi che congiungono le isole alla terraferma. Si incontrano grosse navi, sulla Neva, fiume di tutto rispetto profondo fino a venticinque metri. All’ormeggio, proprio davanti a una fortezza, (di Sant’Antonio, credo), è ancorato, tirato a lucido, l’incrociatore Aurora, dal quale partì il famoso colpo di cannone che diede il via alla rivoluzione. Il valore estetico di questa città è immenso, come il piacere che ho avuto nel visitarla. Mi rendo conto di sembrare una guida turistica, ma non ho mai dimenticato, neanche per un istante, di venire dall’Italia, il paese più ricco di luoghi di sogno e di tesori artistici. Il fatto è che non mi aspettavo tanto, da San Pietroburgo. Se mi sforzo di ricordare un altro luogo che mi abbia tanto stupito, senza però entusiasmarmi allo stesso modo, le prime cose a venirmi in mente sono i grattacieli di Manhattan e in particolare le torri gemelle, e tutto ciò che ormai non si può più ammirare dalla più alta. Stamattina ho sbagliato le previsioni. Il vento si è intiepidito e ha fatto una bella pulizia. Verso le quattro ho fatto un salto al pontile. Ho finito di sgottare la poca acqua lasciata ieri sera ma non ho provato la vela nel porto. Troppe installazioni provvisorie rispetto alla forza del vento. Potrebbe sfilarsi l’albero, saltare lo strallo e altre amenità del genere. L’ultima cosa che mi serve è una collisione contro uno dei preziosi yacht che prendono il sole all’attracco.

lunedì 3 ottobre 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Lunedì, 30 agosto 2010. Giornata di pioggia e di sole. La temperatura si è abbassata. Sollievo generale. Sono curioso di sentire cosa diranno quando farà freddo. Sembra che la protesta sia un bisogno primario dell’umanità. Vuoi o non vuoi, malgrado tutto il progresso tecnologico, non c’è scampo, tocca all’uomo adeguarsi alla natura. Dio ci scampi, se dovesse mai accadere il contrario. Sopravvivere a una natura superba, avara, lussuriosa, invidiosa, iraconda, accidiosa e disonesta sarebbe molto al di sopra delle umane forze. Dunque, adeguiamoci. Copriamoci con il freddo e scopriamoci con il caldo. Immergiamoci nei laghi, nei fiumi, nel mare, se scoprirsi non basta, trastulliamoci con il ronzio dei condizionatori, ma non protestiamo. Intabarriamoci dentro cappotti, giubbetti e piumini, soffochiamoci con il riscaldamento centrale, ma per favore non protestiamo se fa freddo. Diamoci un’occhiata attorno, un’occhiata attenta. Protestare per il caldo o il freddo, è una mancanza di rispetto per chi i guai ce li ha per davvero. Ma soprattutto non protestate perché mi sono stufato di sentire e mi sono rotto i coglioni! Chiarito il punto, passiamo a un bisogno secondario. Le gite. Sinonimo di vacanze, relax, divertimento. A Mosca mi sono sentito dire dalle assistenti dell’agenzia che avevamo un’ora per la pausa pranzo. Chiarisco. Appena arrivati, ci hanno subito informato che c’erano escursioni incluse nel prezzo e altre, facoltative, a pagamento. Avrebbero specificato gli orari nella bacheca speciale dell’albergo. Finita la prima escursione al mattino, siamo rientrati alle due per il pranzo, poi siamo andati a vedere l’orario per quella facoltativa, per la quale il pagamento era stato effettuato in anticipo, in mattinata. Partenza ore tre. Quando ho detto all’assistente che non ce la sentivamo di ripartire con il pranzo ancora mal digerito, e avremmo preferito cambiare con l’escursione notturna, prevista per dopo cena, mi ha quasi riso in faccia specificando che la pausa pranzo era di un’ora e che non era possibile lo spostamento. Avrei voluto dirle che non ero andato a Mosca per fare il muratore, ma aveva la faccia da stronza e me lo sono risparmiato. Alle tre mi ha pure telefonato in camera, per avvertire che stavano partendo. Quando le ho ricordato il nostro infelice dialogo di poco prima ha detto –O.K. allora lei e sua moglie non venite!- Le ho detto che non era per niente OK, che avrebbe dovuto richiamare prima la mia attenzione sull’esiguo divario tra il pranzo e la ripartenza e avrei anche voluto aggiungere brutta stronza! , ma anche stavolta me lo sono risparmiato. Nello stesso inconveniente devono essere incappati anche altri, perché da quel giorno le gite facoltative sono state sabotate a sangue e lo stereotipato sorriso delle assistenti ha perso vigore e molto del suo smalto originario. Ritengo che abbiano visto andare in fumo grosse percentuali. Verso la fine del soggiorno a Mosca, le signorine ci hanno graziosamente informato che è consuetudine, da quelle parti, lasciare una mancia per la guida e per l’autista. Quindici e quindici a cranio, per noi sessanta euro in totale. Considerando che ci aspettavano altri tre giorni a San Pietroburgo, un’altra guida e un altro autista, e alla fine avremmo sborsato centoventi euro di mancia, ho cominciato a pensare che qualcuno fosse andato fuori di testa. Ho tastato un po’ il terreno e anche gli altri la pensavano come me. Tacitamente abbiamo deciso per una mancia a discrezione e tanti saluti. Viaggio istruttivo. Dopo il sabotaggio delle gite a pagamento e la drastica riduzione delle mance faraoniche potremmo redigere un manuale di istruzioni su come rendere inoffensive assistenti di viaggio avide. Con il russo me la sono cavata abbastanza, anche perché non ho dovuto chiamarlo in causa molto spesso. Alla reception e nei negozi, contrariamente a quanto accadeva una quindicina di anni fa, parlavano molto bene l’inglese. Per lo più, se mi sono dovuto servire del russo, è stato in albergo con le donne delle pulizie. Devo dire che ha avuto una funzione fondamentale, perché a volte venivano quando eravamo ancora in camera, e dovevo spiegare a che ora saremmo usciti e quando saremmo tornati, in modo che sapessero regolarsi e non lasciassero la camera disfatta e soprattutto senza asciugamani puliti. Ho avuto anche modo di constatare, nel mio russo, delle falle abissali. Quindici anni di totale abbandono. Sono stato un disgraziato, lo confesso e me ne pento. Tanto che ho ripreso in mano dei vecchi appunti. Mi sono costati sudore e sangue, ma risvegliano anche tanti bei ricordi. Alternanza di gioia e sofferenza, il trucco divino che ti consente di vivere. E’ un vecchio detto che chi conosce un’altra lingua, oltre la propria, vale per due persone. Io dovrei valerne sei, se le conoscessi tutte allo stesso livello e quel detto non fosse sfacciatamente esagerato. Ci sono situazioni, però, in cui rischi esaltazioni pericolose. Se in un gruppo sei l’unico a conoscere la lingua del posto, o anche soltanto l’inglese, ti senti guardato con rispetto, ammirazione e anche un po’ di invidia. Di fronte a ogni ostacolo, specie se si tratta di un contrattempo, gli altri si aggrappano a te come a un salvagente. Di colpo ti fanno sentire importante e rischi di sentirti tale davvero. Per quel che mi riguarda, non c’è pericolo. Mi basta pensare a come mi sento davanti a un computer che fa i capricci.