lunedì 28 giugno 2010

18 febbraio 2010
Oggi ho visto la doc. Le analisi vanno bene, anzi, scorrendole ha tirato un sospiro di sollievo, come si fosse tolta una peso. Ho indagato, ma ha risposto in modo vago. Chissà che cosa l’aveva insospettita, e sospetto che avesse sospettato qualcosa di grave. Ho provato a tirare un sospiro di sollievo anch’io, ma troppo presto e si è inceppato a mezza strada. Ci sono due linfonodi ai lati del collo. Le ricordo che sono lì da almeno quattro anni e non hanno mai rotto i coglioni a nessuno, ma lei dice che si sono induriti e occorre dare un’occhiata e mi tappa la bocca con un’impegnativa per un’ecografia. All’ASL mi fissano un appuntamento fra due mesi. Esattamente fra due mesi e otto giorni, ma poteva andare peggio. Stamattina mi sono misurato le forze con il test della spesa. Una quindicina di scale fino al portoncino d’ingresso con due borse stracolme, una in ciascuna mano. Operazione ripetuta per tre volte, le borse erano sei. La prima volta è andata bene, la seconda un po’ meno, la terza eseguita in apnea. Una merda, e i tiramisù della doc sono finiti. Chiederò in farmacia.
Ho ripreso fiato davanti al televisore, dove Cecchi Paone si autocelebrava come portavoce di tutti i gay d’Italia, sei milioni, statistiche alla mano. Il dieci per cento, non fa una grinza. Poi spiegava che si può nascere gay, ma sono possibili anche variazioni di percorso strada facendo. Su questo punto non è stato molto chiaro e non ha spiegato se la conversione può ascriversi a casuali contatti con i gay del primo tipo. Speriamo di no, o dalle nuove leggi antidiscriminatorie per l’arruolamento nelle forze armate scaturirebbero catastrofi. Ha citato anche un libro, non ricordo di chi. Il succo del testo è che al giorno d’oggi il sesso è assatanata ricerca di orgasmi e la gente se ne frega di procreare, quindi non c’è da obiettare se entrambi i partner offrono lo stesso prodotto. Sarà. Non ne faccio una questione morale, diociscampi, solo mi sa di semplicistico. Il semplice affascina, il semplicistico per niente. E’ vero che tutti fanno all’amore senza pensare a far figli? C’è una flessione preoccupante nelle nascite, chi lo nega, ma la cicogna continua a volare e i reparti di ginecologia e ostetricia non hanno mai chiuso. E’ giusta questa incessante celebrazione mediatica dei gay, specie di quelli noti sul piccolo schermo, questa angosciante pretesa di normalità, la delusione di una vita diversa spacciata per soddisfazione e gaiezza? Non si rischia di confondere le idee agli adolescenti? La televisione, ovviamente, ci va a nozze a confezionare un prodotto per sei milioni di interessati. Strumentalizzazione è una parolaccia, ma quando di vuole, ci vuole. L’espressione una vita diversa, che mi è appena scappata dai tasti, merita una precisazione urgente, è d’obbligo evitare malintesi. Diversa da che? Da modelli disneyani di famiglie felici e soddisfatte? Stronzate. Gli etero sono in piena crisi e le coccole hanno vita breve. Gli etero vanno a scannarsi nelle aule dei tribunali, in genere per via dei figli, degli alimenti, degli ormai onnipresenti danni morali e materiali, quando non si scannano sul serio e finiscono sulle pagine della cronaca nera. Da questa angolazione i gay non hanno niente da invidiare agli eterosessuali. Proprio niente. Eppure la diversità resta, e certamente genera sofferenza. Non si può restare indifferenti al processo della natura che perpetua la vita. Accidenti a Cecchi Paone e ai discorsi impegnati. Mi mandano in depressione. Dickens sapeva ridere attraverso le lacrime. Per questo mi piace e per questo ci provo anch’io, in genere con risultati alterni. Migliorerò, speriamo. Non si può restare indifferenti al processo naturale che perpetua la vita, dicevo, e potrebbe anche essere una frase conclusiva. Invece non lo è affatto, perché solleva un dubbio enorme e devastante come uno tsunami. E’ davvero una buona idea perpetuare la vita, cioè emettere convocazioni obbligatorie per nuovi nascituri che dovranno vivere in un mondo inquinato in ogni settore, specie quello dei rapporti fra umani, in ambito nazionale e peggio ancora in quello internazionale, ancor più di quanto non lo sia nell’atmosfera? Prima di rispondere sarà il caso di ripassarsi la materia con un paio di telegiornali. La conclusione più ottimistica è che almeno si dovrebbe lasciare una possibilità di scelta, magari con una crocetta sul sì. Rebus sic stantibus, la faccenda dei gay può essere vista da un’angolazione diversa, logica e chiarificatrice, da interpretare come sorprendente alternativa al libro dell’Apocalisse. Il mondo naturale fa fatica a sopravvivere, considerati gli ecocasini combinati dagli umani e i danni forse irreparabili sofferti dal pianeta. I gay rappresentano l’incredibile contromisura della natura, che si è rotta i coglioni e li fa proliferare a dismisura e continuerà a farlo fino a quando, al grido di “gay è bello!” tutta l’umanità sarà convertita e presto estinta. La terra, finalmente libera dall’incubo dell’umana specie, potrà tirare un sospiro di sollievo, lascerà che il tempo le curi le ferite e potrà avviarsi tranquillamente alla fine, verso il riposo eterno che le compete.

sabato 26 giugno 2010

17 febbraio 2010
Odio il telefono che squilla. In genere sono rotture di palle. Per lo più sono i call center, voci di angioletti che ti chiamano signore con il nome di battesimo, cosa che ti fa girare subito le scatole perché sai che non ti hanno mai visto neanche in una foto venuta male, perché avverti che si tratta di un atteggiamento viscido e da maleducati, che si sforzano di apparire amici di una vita per circuire i coglioni, e ti offrono la luna e dintorni a prezzi stracciati. Devi far presto a riattaccare, perché se ti scappa una data di nascita o un indirizzo, o diociscampi, un codice fiscale, ti ritrovi iscritto in qualche lista di abbonati a un qualche servizio di cui non puoi fare a meno come i barboni delle navi da crociera o come gli eschimesi di un ombrellone da spiaggia o un manuale di giardinaggio. Come dicevo, rotture di palle. Credo di aver fornito dati sufficienti per spiegare l’umore del mio subconscio quando ieri, poco prima dell’ora di pranzo, ha squillato il telefono. Era la banca. Qualcuno, là dentro, si era preso la briga di razzolare fra le cifre del mio conto corrente, cifre di piccoli risparmi, per dirmi che mi conveniva investire quei pochi soldi in una piccola obbligazione. In un anno ne avrei ricavato un vantaggio di almeno duecento euro. Che potevo dire? Se ti fanno un favore, d’acchito ti viene solo da dire grazie. E’ quello che ho fatto, e ho ripagato lo zelo dell’impiegata, assicurandole che uno di questi giorni mi sarei fatto vedere. D’acchito. Poi si è svegliato un diavoletto, uno di quelli che abitano il nostro cervello senza fissa dimora, voglio dire senza aver fissato una particolare zona di residenza in quel molle grigiore, preferendo invece salticchiare da un ammasso di cellule all’altro, a seconda di dove si sentano interpellati. Sono diavoletti maliziosi, e si può capire che di questi tempi quasi non facciano in tempo a spostarsi da una zona all’altra, tante sono le convocazioni. Tornando al mio caso, cioè al diavoletto malizioso destatosi appena ho riattaccato, ha limitato il suo intervento a due sole parole –Cui prodest?-. Lì per lì ho pensato che avrebbe anche potuto sforzarsi di aggiungere qualcosa, poi mi sono sentito in dovere di scusarlo per l’eccesso di lavoro e la stanchezza, alla fine ho dovuto riconoscere che non avrebbe potuto essere più esauriente. –A chi giova?-. La concisione è un grosso pregio, specie quando riesce a dire tutto. E’ mai possibile, voleva dire il diavoletto, che qualcuno si prenda il disturbo (e sostenga la spesa) di una telefonata, direttamente a casa tua, solo per farti un favore (in euro), per puro altruismo e senza una ricaduta, sia pure di poco conto, nelle proprie tasche, in questo caso nelle casse della banca? Nel pomeriggio sono andato a vedere di che si trattava e ho conosciuto la samaritana telefonica. Intorno ai trentacinque, bionda con delle mèches bianche e un residuo di sex appeal. Molto professionale. Mi ha illustrato un paio di prodotti, cioè un paio di obbligazioni studiate dalla banca, una con un tasso a salire, che però se a un certo punto fosse risultato troppo alto rispetto alle condizioni del mercato avrebbe autorizzato l’istituto a interrompere il contratto, l’altra con un minimo e un massimo, entro i quali l’istituto avrebbe stabilito periodicamente il tasso a seconda dell’evoluzione della piazza. Insomma, nella prima c’era un freno immediato nel caso ci avessi guadagnato troppo, nella seconda mi sarei dovuto rimettere ai loro calcoli, vista la mia assoluta incapacità di destreggiarmi in tale ambito. Mentre la ascoltavo non riuscivo a scacciare dalla mente la storiella della donna che va al mercato per comprarsi una canottiera e un paio di mutande. Chiede i prezzi e siccome trova troppo caro quello delle mutande pretende uno sconto. L’ambulante si infastidisce ma glielo concede senza discussioni. Nello stesso tempo, però le aumenta il prezzo della canottiera. La donna, popolana di estrazione e dal linguaggio sprovveduto, chiede all’ambulante perché mai le cali le mutande e le rialzi la canottiera. La risposta dell’ambulante rientra nella scurrilità più consueta, perciò è facile immaginarsela e non è necessario ripeterla. Questi i pensieri inconfessabili che celavo alla ragazza dalle mèches bianche mentre spiegava e sorrideva, e continuavo a ripetermi che quella non era una ragazza dalle mèches bianche, ma la banca, e la banca acquista e vende denaro, e da ciascuna operazione, dico ciascuna, si aspetta un utile, e anche se ti manda una ragazza con un bel sorriso e le mèches bianche a spiegarti cose che non capisci, non devi illuderti che se ti offre un vantaggio, come nel caso dell’ambulante, non ci sia qualcuno o una qualche clausola che trami alle tue spalle di rialzarti la canottiera. Allarme rosso, ma c’è chi sostiene che con le banche finisce sempre alla stesso modo. Comunque, qui si tratta di quattro soldi e da entrambe le proposte ricaverei un piccolo utile rispetto al tasso del conto corrente che, a leggerlo, sono torrenti di lacrime. Mi sono preso qualche appunto e ho detto che sarei tornato. Bando ai cattivi pensieri. Come se fosse facile. Proprio quel discorso sulle mutande mi fa venire in mente che ci sono fregature del tutto diverse, che ti piovono addosso anche quando le mutande sono altri a calarsele. Anzi, altre. Non è discriminazione sessuale, i gay l’imene proprio non ce l’hanno e questa faccenda riguarda la verginità. Riesumare questa parola dal cimitero della memoria è una faticaccia. E’ sepolta in una fossa smisurata e ogni anno sprofonda un po’ di più. Provo a sfogliare reminiscenze. Prima di sposarsi, i maschi insidiavano le donne vergini, che, dagli e ridagli, prima o poi non lo erano più. Quando decidevano di sposarsi, i maschi volevano donne vergini, ma proprio per colpa loro c’era scarsità di mercato, e poiché il maschio innamorato si fa coglione, si compiaceva di aver fatto la sua parte e si gettava ai piedi di qualche povera crista sverginata da altri, con il vindice proposito di rinfacciarglielo al primo diverbio. Questo è quanto ricordo del rapporto fra la verginità e il percorso sessuale e matrimoniale dell’homo sapiens, latino, perennemente erectus. Reminiscenze. Nessuna meraviglia, perciò, che le mutande e la verginità in discussione non appartengano al meridione europeo. Le novità vengono dall’Oriente, proprio dove adultere e omosessuali vengono lapidati, come pure le mogli violentate da intrusi assatanati. Le novità vengono dalla Siria, da Damasco, che invece di celebrare la rivoluzione al Kalashnikoff, come sta facendo l’Iran, con gli annessi e connessi delle contestazioni di piazza, ha messo in cantiere una mirabolante rivoluzione sessuale, con le donne in prima linea, naturalmente, alla faccia dei maschietti islamici, che fottono come conigli ma continuano a volere, castigo la morte, la sposa vergine. Con le siriane, però, sono cazzi. Con trenta euro se la ricomprano la verginità, ogni volta che serve, specie in caso di matrimonio. Si ficcano nella vagina un sacchetto miracoloso, che rimpiazza l’imene quale testimone di una verginità violata. Naturalmente con la complicità del testosterone, che in quei momenti non rende l’aspirante stupratore un campione di lucidità mentale. Dopo aver opposto una ragionevole resistenza, il sacchetto si rompe e ne scaturisce un liquido rosso che ingannerebbe anche un chirurgo vascolare. Un paio di gridolini, qualche lamento e voilà, les jeux sont faits! Adulterio prematrimoniale, ignoto alla legge e neppure più documentabile, niente lapidazione. Le nostre donne, malgrado ce lo fossimo meritato a pieno titolo, non ci hanno mai preso per il culo con sfacciate sofisticazioni vaginali né ci hanno etichettato come teste di cazzo fin dalla prima notte di nozze. Forse le meritano due parole di ravveduta riconoscenza.

lunedì 21 giugno 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Lunedì, 15 febbraio 2010
Stamattina l’infermiera era in stato di grazia e mi ha infilzato con delicatezza. La volta scorsa, invece, mi ha fatto male. Gliel’ho detto e mi ha risposto che ficcare un ago di acciaio dentro una vena non può far bene. Mi ha ammutolito. Anche questa deve avere il DNA sovraccarico di incazzature e rivendicazioni secolari. Per di più è armata e poco propensa a discutere. Meglio fare il paziente e non andarsi a cercare un buco fuori vena. Quello che ti fa girare le scatole, mentre aspetti il tuo turno per farti bucare, è che c’è sempre qualcuno convinto di non dover fare la fila. Arrivano e vanno direttamente alla porta, chiusa con tanto di avviso di non disturbare, senza degnare di uno sguardo chi lo precede con tanto di numero in mano. La legge dovrebbe quantificare un limite di condotta, oltre il quale sia consentito prendere gli stronzi a calci in culo. Capisco perfettamente che non può essere un reale suggerimento ma solo un pio desiderio, non fosse che per la difficoltà di una quantificazione oggettiva. In proposito, comunque, conto sui progressi della scienza e mi riservo qualche speranza per il futuro. Un’altra circostanza che causa improvvisa accelerazione delle pulsazioni, vale a dire arrabbiatura, irritazione, e almeno per una volta evitiamo di abusare del solito termine che un tempo era da ascriversi a volgarità, è lo svuotamento totale dell’ambulatorio, giusto nel momento in cui arriva il tuo turno. Mai capitato? Si apre la porta, esce il paziente che ti precedeva, e fai per entrare. E’ il momento in cui finisce l’attesa, che è sempre una piccola angoscia, un’ansia inevitabile, il momento in cui ti ripaga una piccola sensazione di sollievo. Invece, dietro al paziente esce tutto lo staff, l’ambulatorio resta vuoto e tu rimani sulla porta a chiederti che cazzo devi fare. Naturalmente la normalità si ripristina dopo qualche minuto, ma ormai quel piccolo senso di sollievo che ti risarciva dell’ansia dell’attesa è perduto per sempre. E’ strano come possa cambiare l’impressione che hai della gente. La volta scorsa mi era parsa antipatica, stamattina mi è parsa simpatica. Parlo dell’infermiera. Mi ha pure dedicato qualche minuto per spiegarmi come potevo avere il referto un po’ prima. Mi pare che abbia pure sorriso. Chissà cosa pensa di noi chi ci ha conosciuto quando non eravamo al meglio delle nostre possibilità. Probabilmente ha conosciuto una persona diversa. Oppure quella vera. Meglio non indagare sull’opinione più diffusa nei nostri confronti. Il rischio è sorpresa, delusione. Personalmente me ne frego e consiglio chi vuole vivere tranquillo di fare altrettanto. Tornando all’infermiera, per esempio, la mia prima impressione negativa sta regredendo, ma la realtà è che non sempre abbiamo una seconda occasione. Concludendo, meglio fregarsene. Viviamo in tempi in cui le donne non accettano di essere più deboli degli uomini, né di muscoli, né di cervello. Prosperano i corsi di autodifesa riservati al gentil sesso, si fa per dire, con lezioni di judo, ju-jitsu e karate, a pagamento e gratuiti, istituiti perfino dalle amministrazioni comunali, con tanti sinceri auguri agli sfigati che coinvolgeranno in alterchi queste leggiadre killer per qualche incidente d’auto o pericolose divergenze di opinione. Il fatto che le donne non abbiano cervello è un vecchio ritornello maschilista, che viene spesso riproposto, malgrado smentito da secoli dai relativi studi anatomici. Era più facile sostenere che non avessero un’anima. Il cervello delle donne è in realtà più piccolo di quello degli uomini, ma non tanto da poterne sostenere la completa assenza. Anzi, pare che nel rapporto qualità-quantità non siano sfavorite. Torniamo a Shakespeare e alla consapevolezza dell’ignoto, dopo la morte, che ci rende codardi. Per contro, la consapevolezza delle proprie capacità rende coraggiosi e induce ad osare. Di donne manager ce ne sono già tante, in tutti i settori dell’industria e della pubblica amministrazione, ma di recente si è scatenato un vento impetuoso che vuole altre donne leader, perché le donne vogliono essere comandate dalle donne e quelle al vertice vogliono altre donne ai vertici della politica, insomma la competizione con i maschietti vola rapida verso il suo massimo storico. Sono pronte, sono in grado di decidere, e affollano i corsi per donne leader, pronte a liberarsi di obsoleti modelli culturali, decise a stringere i tempi della preparazione per potersi cimentare sul campo. Che fine hanno fatto gli sciupafemmine? Le ragazze romantiche, sognatrici, felici di essere baciate, e magari anche scopate in una sera col chiaro di luna, senza un’idea chiara di un orgasmo, sono finite. Al loro posto ci sono virago in pantaloni aderenti, stivalate e spesso anche motorizzate, che per prima cosa ti studiano la zona inguinale per constatare de visu cos’hai da offrire. A letto, sanno esattamente cosa vogliono e pretendono fior di prestazioni e di orgasmi. Così gli sciupafemmine sono entrati in una crisi autodistruttiva. Temono di non essere all’altezza, di finire nel cestino come carta straccia e soffrono di ansia da prestazione e finiscono per cercare rifugio sul divano dello psicanalista. C’era un tempo in cui le donne erano il sale e lo zucchero della terra. E adesso?

lunedì 14 giugno 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Domenica, 14 febbraio 2010
Faccio colazione, poi apro la porta di casa per dare un’occhiata di fuori. La solita pioggerellina invisibile, segnalata dall’asfalto bagnato. Il cielo è un ammasso di piombo. Non sembra voler rimanere sospeso ancora per molto e ti aspetti che da un momento all’altro ti caschi addosso. Domani di nuovo all’Asl per il prelievo. Speriamo sia davvero l’ultimo, così potrò tornare a occuparmi della barca. Mi sta aspettando da un pezzo e sarà pure incazzata. Può sembrare un’eresia, ma le barche si incazzano, e come. La barca è come l’innamorata, ci parli, ci vivi momenti idilliaci, ma ti ci scontri anche di brutto muso. In genere ti ci diverti insieme, lasci che ti distenda i nervi, ma nel momento del pericolo ci parli, e anche molto seriamente.
Se ti aggredisce una burrasca con quaranta nodi di vento senza preavviso, il rischio è che si spezzi un pennone, se non addirittura l’albero. Allora cerchi di farle coraggio, di esortarla a resistere alla pressione del vento, a mantenersi in assetto per evitare di rovesciarsi, e in quelle occasioni certi discorsi sono del tutto normali –Dai, bella, che ce la fai!- oppure – Forza, è solo questione di qualche minuto!- o anche –Coraggio, non può durare ancora per molto!-, -Brava, continua così!-. E’ proprio in quei momenti che ti accorgi se è incazzata con te. Se ti sei preso cura di lei, se non c’è neppure una cimetta fuori posto, se le molle dei moschettoni scattano come si deve, se le sartie sono assicurate a regola d’arte, se la vela è fissata ai pennoni senza un nodo allentato, se la mezzana è in sinergia con la vela principale, allora lei ce la mette tutta, si impegna allo spasimo e quasi sempre ti tira fuori dai guai. Se invece l’hai trascurata, apriti cielo! E’ capace di lasciarti senza timone se non hai sostituito una barra difettosa, o anche senza remi, solo per non aver controllato che fossero fissati agli scalmi nella giusta maniera, e in certi casi perfino senza vela. Le incazzature della barca sono pericolose, perché te le sbatte in faccia quando meno te lo aspetti, e sempre nelle situazioni critiche. Lei pretende un rapporto leale, un impegno reciproco, e se si turba è sempre colpa tua. E’ un po’ come una donna, devi averne cura, rispettarla, se no s’incazza. Secondo un vecchio detto dovresti scegliere fra la moglie e la barca, perché, inevitabilmente, o fai incazzare l’una o fai incazzare l’altra. Per la verità, con le donne di oggi il discorso non è più così semplice. Incazzate ci nascono. Chi se la sente di biasimarle? Basti pensare che c’è voluto un Concilio per stabilire che anche loro avevano un’anima. Prima ce l’avevano solo gli uomini, a quanto pare, dunque potevano essere rinchiuse in un serraglio insieme alle altre bestie, anche loro prive di anima. Ma anche dopo aver stabilito ufficialmente che appartenevano alla razza umana, con tutta la spiritualità che gli competeva, i maschi hanno fatto valere i muscoli, lasciando loro pochi spiragli, non importa che fossero ebrei, cristiani o musulmani. Con il passare dei secoli, però, gli spiragli sono diventati finestre, poi finestroni, finché la femminilità è dilagata fino a sommergere l’uomo cacciatore e il marito padrone. Harriette Westbrook è affogata per sempre nella Serpentine di Hyde Park, portando con sé tutte le donne disposte ad annullarsi per amore, e al suo posto sono emerse tante Mary Godwin, intellettuale e figlia di intellettuali, capace di competere con i più famosi fra i poeti romantici dell’Ottocento, vedi Byron, e lo stesso Shelley, che aveva rubato a Harriette, e con due palle da sfornare sotto i loro occhi un romanzo horror della stazza di Frankenstein. Insomma, non era tipo da suicidarsi per amore, come Harriette. Quanto ai mariti padroni, come lo era stato Shelley con Harriette, appartengono alla storia. Se Percy fosse vissuto al giorno d’oggi e fosse stato citato in giudizio e incolpato della separazione e dell’eventuale divorzio, avrebbe passato il resto della vita a leccarsi le ferite e a ingegnarsi di far collimare il pranzo con la cena nei regolari intervalli. Il resto della generosa rendita paterna gli sarebbe servito per passare gli alimenti a Harriette e ai suoi due figli. Di questi tempi le donne chiedono il divorzio. In genere dopo il primo figlio, ma anche dopo il secondo. E’ più conveniente. A voler malignare, si tratterebbe di una sorta di prepensionamento. Scegliere un marito abbiente, sfornare una paio di figli, quindi marcarlo stretto fino a quando non commette la prima stronzata. Magari va a puttane, o chiama la prima sfigata che incontra a testimone della propria virilità. Poi tutto fila liscio come l’olio, e siccome la legge impone che gli alimenti siano proporzionati al tenore di vita cui era abituata, si sarà assicurata una buona pensione. Progetto immorale? Dipende. Se il dio Quattrino ha davvero sostituito il Dio trino, è perfettamente in regola. Ci sono le solite sbadate, però, che scelgono mariti che non navigano nell’oro, dunque nessuna meraviglia che molti ex macho frequentino la Caritas all’ora di pranzo e qualcuno anche all’ora di cena. Tornando al vecchio detto, la moglie o la barca. Tutto sommato, con i tempi che corrono, scegliere la barca sarebbe meno rischioso.

venerdì 11 giugno 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Sabato 13 febbraio 2010
Finalmente, stamattina, una seduta liberatoria. Certe funzioni fisiologiche devono avere una componente mistica, ti liberano la mente e ti infondono fiducia. Sono rari momenti di assoluta concentrazione e raccoglimento spirituale. Ieri mi chiedevo chi lavora con entusiasmo nel nostro bel paese. Il mio intestino, no di certo. Questo figlio di puttana, non solo non lavora con entusiasmo, ma tutte le scuse sono buone perché non lavori affatto. Gli piace concedersi lunghi periodi di riposo. Una volta per via di una marmellata, un’altra perché ho ceduto a una tazza di latte o per aver saltato un contorno di insalata, stavolta sarà per via dello scarso moto durante la malattia e la convalescenza, oppure per via degli antibiotici, insomma, ogni scusa è buona per togliere spazio alle mie esperienze mistiche. Oggi il mondo è pieno di mistici, viviamo in tempi di vacatio divinitatis, di rifiuto delle divinità ufficiali, in nome delle quali l’umanità si è redenta o ha commesso crimini scellerati nel corso dei secoli, e vengono rifiutati perfino i simboli delle divinità, che ci hanno accompagnati per una vita e che vorremmo far sopravvivere, non fosse che per ragioni affettive. Anche gli islamici non mostrano una solida chiarezza di idee, tra sunniti, sciiti, fondamentalisti e ortodossi, tra integrati e disintegrati. Ma se si apre un vuoto, ecco il compiersi di una prodigiosa osmosi, che si affretta a colmarlo con un numero di divinità di seconda categoria, sebbene dotate di poteri immensi. Bacco, tabacco, venere, la buona tavola, i Mac Donald’s pieni di hamburger, la cocaina, l’eroina, l’hascisch, il look anoressico, e chi più ne ha più ne metta, ma, soprattutto, il dio Quattrino. C’è ampia scelta, e se misticismo significa stabilire un contatto diretto con la propria divinità, al di fuori di ogni controllo della ragione, allora le esperienze mistiche diventano un numero incalcolabile, da capogiro, e sono anche alla portata di tutti, senza limiti di censo o di età. Per gli adepti del dio Bacco, la tele ci subissa quotidianamente delle loro performance al volante, con tassi alcolici micidiali nelle vene, quando falciano pedoni come spighe di grano o piombano addosso ad altre auto, facendone scempio insieme ai loro occupanti. Una volta, vedendo i film americani e gli attori quasi sempre con il bicchiere o la bottiglia in mano, mi sorprendevo a chiedermi in che cazzo di mondo vivessero. Adesso, invece, mi chiedo in che cazzo di mondo viviamo. Gli adoratori del dio Tabacco li vediamo tutti i giorni, a risucchiare fumo dalle sigarette fuori dei locali pubblici o dei luoghi di lavoro dove non è permesso fumare. Esperienze mistiche poco esaltanti, in fondo sono i meno dannosi. Purché non abbiano fatto il salto di qualità passando all’hascisch e inserendosi a buon diritto nel pianeta droga, dove le esperienze mistiche si fanno in privato e in progressione, passando per l’eroina fino alla cocaina. Queste sono esperienze che davvero ti mettono in contatto con il divino, se ce ne fosse davvero uno per tutti, molto al di sopra della pletora di seconda categoria, ma il concetto sarebbe più chiaro dicendo che ti mettono in contatto con l’al di là, nel senso che ti ci spediscono come relitto umano per la rottamazione. Biglietto di sola andata. Malgrado tali spettri, si tratta di un misticismo in progresso. I trafficanti e gli spacciatori, per non restare sforniti, hanno incrementato le spedizioni e le provviste e la Guardia di Finanza, scoperta la tendenza, ha quintuplicato i sequestri rispetto a quelli del 2008. I mistici della buona tavola rischiano al massimo la gotta o un’intossicazione al ristorante, gli adoratori del Mac Donald’s un’obesità da codice penale, le adoratrici del look anoressico lunghi ricoveri in rianimazione e trattamenti psichiatrici a non finire. Per gli adoratori del dio Quattrino basti ricordare l’ultimo convertito, il tenero quindicenne che ha cercato la sua esperienza mistica nel tentativo di estorcere il pizzo a un edicolante, lasciando un biglietto, o meglio un’ingiunzione a pagare ottocento euro in un dato luogo a una data ora. Non si è trattato di un’esperienza incoraggiante, per sua fortuna, perché invece dei soldi ha trovato ad aspettarlo i carabinieri. Gli adepti di Venere, quelli che, prima della legge Merlin, si affidavano alle maitrèsses delle case di tolleranza e in seguito alle grazie e alle infezioni di importazione, in genere dall’Est europeo, sembrano aver accentuato il loro misticismo e necessitare di esperienze molto più intense. Attualmente, per godere di una esperienza mistica davvero esaltante, sono passati allo stupro. Senza pudore, senza riservatezza, alla luce del sole, sui treni, dietro gli androni, nei parchi in pieno giorno, per la strada, sulle scale dei condomini, ai party milionari e non. Ed ecco la domanda, che più passa il tempo, più si fa ricorrente. In che cazzo di mondo viviamo? Ma forse c’è ancora speranza. Dicono di aver trovato acqua su Marte. Sarà vero?

martedì 8 giugno 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Venerdì 12 febbraio 2010
In questi giorni di reclusione qualche ora d’aria me la sono presa. Sono dovuto uscire per i prelievi, per ritirare i referti, per le radiografie, per andare dal dottore e per i referti delle radio, poi ancora dal dottore, sono andato in farmacia a prendere gli antibiotici, ho accompagnato mia moglie a fare la spesa il giovedì, con la febbre e senza, e per tre volte sono anche andato dal dentista. Che dico, dall’odontoiatra. I dentisti non ci sono più, ci sono gli odontoiatri. Basta guardare le targhe in ottone fuori degli ambulatori. Come gli insegnanti di ginnastica. Non ce ne sono più. Oggi sono tutti insegnanti di Educazione Fisica. Una volta non si offendevano neanche se li chiamavi maestri di zompi, ci si facevano su una risata. Oggi la cosa si è fatta seria. Incide sulla dignità professionale. Eppure il dizionario definisce la ginnastica come un insieme di esercizi che si esegue in palestra per dare armonia alla mente e al corpo. Hai detto niente. Per di più la ginnastica si nobilita nel campo medico, quando serve a far riprendere a un arto o un organo la sua normale funzione. E’ davvero un termine così scadente? Non va trascurato che l’espressione latina è ars gymnastica, il che aggiunge una denotazione artistica, già insita nell’originale greco. Fortune e sfortune di una parola sono avvolte nel mistero. Forse dipende dalla desinenza, per la rima con una materiale ignobile come la plastica, o con un simbolo inquietante come la svastica, chi può dirlo? Credo di aver divagato, succede, le divagazioni non sono che associazioni di idee. Possono anche essere divertenti. Stavo parlando degli odontoiatri. Una categoria al di sopra delle umane cure, che se ne infischia delle crisi finanziarie, di quelle economiche, della crescita del PIL, dell’età pensionabile e della disoccupazione. Il resto dell’ordinaria umanità, quella che protesta quando i fagioli aumentano di venti centesimi al chilo o lo zucchero supera l’euro, o quando il meccanico o l’elettrauto includono nella fattura una cinquantina di euro malamente giustificabili, non batte ciglio davanti alle centinaia, alle migliaia, alle decine di migliaia di euro da sborsare per riparare i guasti della dentatura. Cos’hanno di speciale gli odontoiatri, rispetto agli altri medici? Si occupano delle vie della nutrizione, ma questo lo fanno anche i gastroenterologi. Pensiamo ai cardiologi, ai podologi, ai chirurghi vascolari, insomma, ci sono un sacco di specialisti che si direbbero più importanti degli odontoiatri. Tutti forniti dall’Assistenza Sanitaria. Per una visita si paga il ticket, a volte neanche quello, un eventuale intervento chirurgico in ospedale è pressoché gratuito. Viene da chiedersi se l’Assistenza Sanitaria fornisca anche il servizio odontoiatrico e la risposta è sì. Ma allora, siamo un popolo di fessi, oppure una qualche ragione si oppone alla scelta più logica e farebbe apparire un “sì” una risposta irriguardosa e semplicistica? Non è la morte il peggior di tutti i mali…, il peggior di tutti i mali è il dolore. Il dolore fisico, lancinante, intollerabile, e fra i tanti, il mal di denti è forse il peggiore. E’ come il mal di mare su un traghetto in mezzo a una tempesta. Non si può scendere. Come il mal d’aria su un aereo in volo. Non si può scendere. Devi sperare che passi, o aspettare di mettere piede a terra. Il mal di denti è anche peggio, perché non passa, e un dentista in camice bianco ti appare come l’angelo della salvezza. Ma il dolore se la ride, perché conosce la prassi e sa che l’intervento dell’angelo è molto, molto improbabile. Dovresti prima far la fila dal tuo medico curante per un’impegnativa e poi correre all’Asl dove ti rifilerebbero una prenotazione a tre, quattro, cinque, sei mesi di distanza. E il dolore? Neppure lui ce la fa, contro la prassi. Mi viene in mente quel campagnolo, scarso a dimestichezza con faccende burocratiche, davanti allo sportello di un ufficio provinciale, che non riusciva a venire a capo di una pratica per via della prassi. Alla fine il poveraccio chiese di poterci parlare, con questa Prassi, per poterle spiegare di persona la situazione e convincerla a risolvere il problema. Solo le persone intelligenti sanno ridere dei propri drammi. Consoliamoci. Per concludere e parafrasando molto liberamente Shakespeare, è la consapevolezza del dolore a far di noi dei codardi, e l’indifferenza della prassi. Questi, i potenti alleati degli odontoiatri. Si potrebbe pensare che io ce l’abbia con loro. Neanche per sogno. Solo con gli incompetenti, che ti rovinano la bocca e il portafoglio. Quanto agli altri, non è colpa loro se il dolore e la prassi fanno pendere la bilancia dalla loro parte, e non si può biasimarli per aver appreso e applicato una delle fondamentali leggi del profitto: Minimo mezzo, massimo risultato. In regime di libera economia sono in regola. Ho divagato di nuovo. Chi se ne frega dei dentisti? No, ripensandoci, tutto è cominciato dopo aver detto che ero stato per tre volte dal dentista. Forse era di lui che volevo parlare, e, come al solito, ho aperto una finestra, anzi, un finestrone. In realtà, non c’è molto da dire, tranne che avrà una trentina di anni e lavora con entusiasmo, e questo depone a suo favore. Chi lavora con entusiasmo brucia le tappe verso la competenza. Quanti siamo, nel nostro bel paese, a lavorare con entusiasmo? Fino a quando le partite di calcio saranno un pretesto per scaricare tonnellate di frustrazione e i talk show e i cosiddetti reality resteranno in cima agli indici di ascolto, meglio non approfondire.

lunedì 7 giugno 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

10.02.10
Sto vivendo giorni di autosegregazione forzata e percepisco, sempre più vicina, una violenta esplosione claustrofobica. In condizioni normali sarebbe arrivata già da un pezzo. Mi sorge il dubbio che si tratti di un vaneggiamento del subconscio, rimasto immune allo sbatacchiamento di tosse e febbre e all’effetto devastante degli antibiotici. In Braccia deboli, le gambe mi reggono appena. Per fortuna, niente febbre. Fa freddo. Piove. Non sono scrosci. Goccioline minuscole, invisibili, si posano sull’asfalto della strada, sulle zolle della campagna e sulla quercia dirimpetto alla finestra, leggiadre e impercettibili come invisibili fiocchi di neve, quel tanto da far penetrare l’umidità nelle ossa e farci stazionare tutto il freddo possibile senza speranza di rimozione. Ci sono freddi diversi. Per esempio, il freddo sulle Alpi. Le ho attraversate in un’auto senza riscaldamento, insieme a quell’altro incosciente che era mio padre, in un mese di gennaio che stento a ritrovare fra i ricordi, tanto mi pare distante e irreale. A un certo punto ci sentivamo rigidi come baccalà e allora accostavamo per sostare sull’orlo della strada. Scendevamo e cominciavamo a battere i piedi sull’asfalto, come forsennati. Pochi minuti e il sangue riprendeva a circolare, il calore e le energie si rinnovavano consentendoci di risalire in macchina e proseguire per un altro paio d’ore. Poi di nuovo a battere i piedi. Provarci con questo tempo servirebbe solo a schizzare di fanghiglia i pantaloni e far incazzare mia moglie. Lunedi mi toccano le ultime due analisi. Se la doc non storce di nuovo il naso, butterò giù un programma di sortite strategiche. Senza fretta. Per prima cosa, sistemare l’attacco per lo strallo di prua. Cominciano a tornarmi in mente cose pratiche, cose da fare. Buon segno. Il secondo punto in agenda sarà provare la vela. Cazzo, al pensiero che la barca si inchiodi mi sento male, ma potrebbe anche partire a razzo e non mancare una virata. Pensare in positivo. Partirà a razzo. Il terzo punto in agenda sarà riparare tutti i danni allo scafo, per fortuna sopra la linea di galleggiamento, dovuti a uno sconsiderato uso di viti, anelli e ponticelli, certamente avverso alle buone intenzioni del mio amico pittore, che di quando in quando deve essersi dato da fare a rimediare a qualche problema al timone, agli scalmi e alle consuete manovre. Il risultato è che ci sono più spaccature e buchi mal riusciti su entrambi i bordi che su una fetta di groviera di quattro metri da un lato e quattro dall’altro. Gli va comunque attribuito un certo merito per le buone intenzioni, che invece non gli va riconosciuto osservando alcuni squarci a prua e a poppa. Piccoli squarci, in alto, non livellati, difficili da riparare, per fortuna innocui per la navigazione. A vederli viene da chiedersi in quali rapporti fossero la prua o la poppa, a seconda del verso dell’ormeggio, con il pontile. Cattivi rapporti, di certo. Più o meno come le automobiline dell’autoscontro con il bordo della pista. Un botto ad ogni rientro, ma senza la camera d’aria di protezione. Onore alla vetroresina. Materiale resistente. Se tutto va bene, riprendo a navigare fra un mese o due. Navigare da soli è il massimo, è come riacquistare una identità fetale, con il vento e le onde che ti cullano e ti proteggono, come una placenta fatta di aria e di acqua, in grado di tenerti lontano per una, due o tre ore dalla carta bollata, da call center aggressivi e irriducibili, dalla mediocrità imperante alla televisione, dalla disgrazia dei quiz sempre più ridicoli, con i quali ignoranza crassa e supina viene contrabbandata per cultura, dai talk show, merda importata dall’America che nel nostro paese attecchisce come erbaccia sulle rovine, dai convegni di approfondimento giornalistico, dove i conduttori uomini sentono aria di divismo e sempre più a lungo indugiano nei camerini dei truccatori prima di entrare in scena, per non parlare di chi si tinge i capelli di rosso o si sottopone a impegnative operazioni di lifting. Veleggiare in solitudine a un miglio, due miglia dalla costa, un sogno, con gli accessori di bordo in regola per evitare bruschi risvegli nel caso di un’ispezione della Guardia Costiera. Eppure, malgrado uno scenario naturale tanto idilliaco, non si è esenti da rischi. Non mi riferisco al mare agitato o ai trenta nodi di vento che ti sorprendono quando meno te lo aspetti, perché se esci dal porto devi aspettarti di tutto e devi sapertela cavare ed essere capace di rientrare in qualsiasi situazione. Altrimenti, meglio non uscire. Mi riferisco, invece, all’inquinamento dei porti, specie quelli grandi, dove stazionano perennemente un gran numero di navi. Pare che ciascuna di esse sia una immensa fonte di inquinamento capace di produrre asma e cancro nella stessa misura in cui ne sono capaci migliaia e migliaia di auto che sputano veleni a tonnellate. I maggiori responsabili, i generatori diesel. Il problema sarebbe in gran parte risolto portando l’elettricità fino alle banchine, ma pare che i comuni siano a secco. Dunque, il signore della vita e della morte continua ad essere il dio quattrino. Noi abbiamo solo un porto rifugio, piccolo, grazie al cielo, dove le grosse navi neppure riescono ad entrare. Ci sono progetti di allargamento, ma per il momento restano progetti. In futuro, potremo sempre contare sulle lungaggini e sugli inevitabili ostacoli burocratici. Siamo in Italia, per fortuna.

sabato 5 giugno 2010

5 febbraio 2010
Per un qualche ghiribizzo meteorologico stamattina non faceva freddo, splendeva il sole e sembrava primavera. Mi sono abbottonato il piumino fin sotto il mento e ficcato in testa il solito cappuccio di lana che in quest’ultimo mese è diventato una componente stabile del mio nuovo influenza-look. Ho ritirato i referti delle radio e sono corso dalla doc. Per fortuna le lastre erano O.K. La ragazza in camice verde aveva lavorato niente male e nel referto non c’era niente di preoccupante, tranne qualche parolaccia indecifrabile. Poi la doc mi ha spiegato che erano termini ampollosi che non significavano niente. Ha scorso rapidamente il papiro delle analisi con aria soddisfatta, ma alla fine ha storto il naso. Di conseguenza dovrò ripetere un paio di analisi, solo un paio, fra dieci giorni. Per essere sicuri, ha detto. Poi mi ha guardato in faccia e devo averle fatto pena. Mi ha dato tre scatole di un qualche tiramisù e mi ha rispedito a casa. Alle quattro niente febbre. Forse è finita davvero. Ha telefonato mio figlio da Londra. Sta dai suoceri, in compagnia di una sfilza di cognati, cognate, nipoti e nipotine, e di certo non soffre di solitudine. Per consolarmi ha detto che ci fa un freddo del diavolo, peggio che qui da noi. Ma lui ci è abituato. Ha fatto gavetta in terra di Albione, prima di riguadagnare le patrie sponde. La moglie è londinese d.o.c. e gli ha sfornato due gemelli al primo colpo. Non è da tutti. Domenica faccio un salto all’aeroporto per portarli a casa tutti e quattro. Speriamo che non nevichi. Mi sono dimenticato di chiedergli se all’aeroporto gli hanno fatto le lastre. Forse non in Italia, ma è probabile che a Stansted o a Heathrow abbiano già montato i body scanner. Almeno a sentire Gordon Brown, la Gran Bretagna ha intenzione di muoversi come un fulmine nella lotta al terrorismo e i raggi X sono indubbiamente rapidi ed efficaci. Purtroppo per lui, la sua popolarità è in caduta libera e si dice che comunque vadano le elezioni i laburisti non vedano l’ora di toglierselo di torno. Forse è il suo colpo di coda. Riacquistare popolarità offrendo a tutti radiografie gratis. Se le compagnie aeree americane sono in fibrillazione e si oppongono a eccessivi controlli, forse anche non del tutto salutari, bisogna capirle. La buriana che li ha travolti nel 2001 non la scorderanno mai. Quello che temono ora è che resti più gente a terra per le lungaggini dei controlli che per paura dei terroristi. Se penso che a mettere in moto questo nuovo macromeccanismo di prevenzione contro gli attentati in volo, con un costo di milioni di dollari e un disagio infinito per chi è costretto a volare, è stato una testa di cazzo di ventitre anni, disadattato, che, a leggere qualche frammento dei suoi diari, non sa ancora bene se grattarsi l’orologio o caricarsi il culo, mi viene da piangere. In genere la naturale categoria di pertinenza di gente simile, viziata e senza coglioni, è quella dei drogati. E’ un meccanismo automatico di autodistruzione, il cui solo lato negativo è quello di coinvolgere le famiglie, che saranno costrette a lunghi anni di sofferenza. A meno che non venga loro offerto un altro tipo di droga, in auge fra i terroristi, la droga del martirio e di gloria imperitura. Sembra perfino che avesse una certa vocazione francescana. Disprezzava il lusso in cui viveva la propria famiglia e perfino regalava indumenti quando li riteneva in esubero. San Francesco si spogliò delle costose vesti e di ogni avere e scelse di vivere in miseria e in preghiera. Invece questo tizio l’ha pensata diversamente. In realtà quelle brevi frasi confuse dei suoi diari male si sposano alla ferma ideologia di un assassino e non è azzardato ipotizzare che non avesse ancora capito bene che cazzo era venuto a fare al mondo. Non è da escludere che con il gran botto pensasse di dare un senso a un’esistenza insignificante, consegnandosi come martire alla memoria dei popoli. E se qualcuno l’ha convinto in tal senso, non deve aver fatto una gran fatica neppure a convincerlo che non c’era stridore di sillogismi tra regalare al prossimo le proprie scarpe e straziare i corpi di uomini, donne e bambini a centinaia, in un attimo, a migliaia di metri dal suolo. Durante la seconda guerra mondiale, all’Intelligence inglese non sfuggiva un solo particolare sui movimenti delle nostre truppe, specialmente delle nostre navi, gli agenti di sua maestà conoscevano i nostri piani e giocavano d’anticipo e se uno dei nostri generali dello Stato Maggiore non andava al cesso all’ora prevista, probabilmente suonava un campanello, da qualche parte, a Londra. Erano i veri signori dello spionaggio, quando li avevamo contro, e adesso che siamo dalla stessa parte si mettono a pisciare fuori della tazza. Stavolta l’hanno fatta grossa. Si sono semplicemente dimenticati di includere nelle liste dei soggetti pericolosi uno studente universitario che nei tre anni del corso, a Londra, aveva mostrato insofferenza per la cultura occidentale ed era stato ripetutamene contattato da estremisti islamici, a loro volta sotto sorveglianza. Se lo avessero fatto, il nigeriano sarebbe stato arrestato all’aeroporto e si sarebbe risparmiato tutto il can can mediatico. Per fortuna, e questo anche a conferma che non fosse dotato di un gran cervello, non è stato capace di assemblare le componenti della bomba e tutto si è risolto in un flop. Per questa volta. Ciò che rimane difficile da capire è come un fatto del genere, nel compiersi del quale la vita di centinaia di persone è rimasta appesa a una filo, che avrebbe potuto concludersi con centinaia di bare da sotterrare in svariati cimiteri di nazioni diverse, o con centinaia di corpi smembrati e neppure identificabili sparsi sul terreno per miglia e miglia, con centinaia di famiglie distrutte da un lutto inaccettabile, possano dare la stura a tutta la merda che va a stiparsi, nel tempo, nel cervello di certi intellettuali della politica. Non ci crederete, ma, per qualcuno, il casino combinato dall’intelligence inglese e anche dalla CIA, visto che il padre aveva messo in guardia l’Agenzia contro il figlio, è un risvolto positivo in termini democratici, e questo perché la disconnessione fra il capo dello stato, il potere politico e quello militare sta a significare che il potere e la legittimità non appartengono a nessuno dei tre, ma al popolo. Fantastico. E se la bomba fosse scoppiata?