martedì 27 luglio 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Venerdì 5 marzo 2010
Piove. Mi viene in mente il romanzo di Hemingway, Il sole sorgerà ancora. Speriamo. In ogni caso, non è più il caso di aspettare, sgottare necesse. Entro in macchina già intabarrato e raggiungo il pontile, dove si culla il mio quasi Fly Junior. Non ho mai pensato di dargli un nome. Alla prima barca, distrutta da una mareggiata, avevo messo nome Piripazio, un’altra si chiamava già Follia, e non mi sono sognato di cambiarlo; quella che le ha intervallate, il Vaurien e quella del mio amico pittore sono rimaste anonime. Dimenticavo il piccolo cabinato acquistato con il nome già scritto dietro la poppa. Si chiamava Jenny. Non mi piaceva, ma non l’ho cambiato. Si dice che porti disgrazia. Fa un freddo cane sul pontile. Un ragazzo e una ragazza stanno facendo riscaldamento seduti sugli scogli. Per lo più si strofinano e si massaggiano. Tolgo le scarpe e indosso gli stivali, salgo a bordo, mi faccio una bella sgottata, a dire il vero credevo ci fosse più acqua, poi me ne torno alla macchina. Sulla strada di casa mi fermo a un’edicola e chiedo il manuale per gli imbranati del computer. Macché, non ce l’hanno. Faccio un salto dal mio mago, chissà che non abbia finito la riparazione. E’ tutto pronto. Mi riprendo lo scatolone e me lo riporto a casa. Gli lascio il portatile con il programma africano, chissà che non riesca a salvare sul floppy ciò che ho scritto in questi giorni. Comunque, è tutto stampato. Male che vada, si tratterà di ricopiare. Dice di tornare lunedì. In studio, rimetto lo scatolone al suo posto, prendo la mappa dei fili e uno a uno li inserisco sperando per il meglio. Redigere una mappa è stata un’idea grandiosa. Pare che tutto funzioni a dovere. Resta solo da verificare la faccenda della masterizzazione, ma una voce interiore mi dice di aspettare. Tanto, per pigliarsi un’incazzatura, c’è sempre tempo. Girando e oziando per casa, ogni tanto vado a sbattere con un titolo di giornale, giornali vecchi, che di solito porto nello scantinato per accendere il fuoco nel camino, a volte illudendomi di bruciare anche tutta la merda che piove dalle testate, in particolare quelle che le notizie le creano, specie se servono a sputtanare più gente possibile, senza limitarsi a riferirle ai lettori. Ho parlato da eretico, ne sono consapevole e so di rischiare il rogo, ma questo usato e abusato diritto all’informazione comincia a rompere i coglioni. E’ diritto all’informazione fotografare il culo della Merks, in vacanza su una spiaggia italiana, e sbatterlo sulle riviste per la gioia dei deficienti? E’ diritto all’informazione lo sciacallaggio sui genitori delle ragazze rapite, assassinate, stuprate, le reiterate insistenze per farli parlare in un momento in cui vorrebbero tanto farne a meno, tutto questo per poter informare i lettori che hanno detto di sentirsi disperati? Se ai lettori fosse mancata una simile informazione, avrebbero potuto pensare che la disgrazia li avesse resi euforici? E’ diritto all’informazione rendere noti precedenti penali di scarso rilievo delle vittime, dico delle vittime, persone che hanno subito gravi violenze, se non sono state addirittura assassinate, quando non è proprio necessario e nulla hanno a che fare con le brutalità che hanno subito? Certo che la gente ha diritto all’informazione, ma si dovrebbe anche evitare che le leve del quarto potere vengano messe in mano a delle teste di cavolo.

sabato 24 luglio 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Giovedì, 4 marzo 2010. Il Papa si recherà al Concilio Eucaristico a bordo della più famosa nave scuola del mondo. Ho visto la Vespucci nel porto di Amburgo, sono passati tanti anni. La ricordo superba, imponente, da incantarsi a guardarla. Le ragazze tedesche, a frotte, si accalcavano sulla banchina in attesa dei marinai in franchigia. Era tutto un grande spettacolo. Sarà una bella esperienza anche per il Papa, che da tempo, ormai, una flotta non ce l’ha più. C’era un tempo, però, in cui i papi ce l’avevano, ma erano papi diversi. Erano papi re, papi combattenti, papi ligi alla ragion di stato, e capitava pure che dimenticassero ogni incombenza spirituale. Erano papi che firmavano condanne a morte, alla fustigazione, e quando avevano bisogno di equipaggi in vista di una battaglia, quella di Lepanto, per esempio, commutavano le condanne in arruolamento coatto nella flotta e i redivivi finivano in catene fra i rematori, con qualche residua speranza di riuscire a sopravvivere ancora per qualche anno. A fargli cambiare idea non c’erano santi né madonne, tanto meno c’era da sperare in una resipiscenza, anche tardiva, che li facesse tornare sui passi della spiritualità a danno della ragion di stato. E quando dico santi, non è solo per ricorrere a una frase fatta, mi riferisco a santi veri, un San Filippo, mi pare, che cadde in disgrazia di Pio V per aver parlato in favore di alcuni zingari, insigniti a forza del titolo di rematori in una galera. I tempi sono cambiati, la flotta papale non c’è più e una breve crociera sulla Vespucci per recarsi a un Concilio Eucaristico si addice al Papa molto di più. Passando alla mia flotta, come la chiama mia moglie, per il Vaurien non si affacciano compratori, la barca all’ormeggio avrà un palmo di vegetazione sotto la carena, che andrebbe grattata via, e quella che mi ha venduto l’amico pittore ha ancora bisogno di una quantità di lavoretti. Tutto ciò mentre piove e io mi sto rimpinzando di antibiotici. Di nuovo ricorrere alla filosofia cinese. Se c’è rimedio, perché ti preoccupi? Se non c’è rimedio, perché ti preoccupi? Mi pare che non ci sia altro da fare. Smettere di preoccuparmi e pensare alla salute.

martedì 20 luglio 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Mercoledì, 3 marzo 2010
Hai voglia a impegnarti e mettercela tutta, è proprio questo figlio di puttana a mettermi i bastoni fra le ruote. Ho sfogliato gli appunti con diligenza, me li sono ripassati parola per parola, segno per segno, poi ho acceso il computer e mi sono gettato a capofitto nel mio primo tentativo di masterizzazione. Una stronzata, direte voi, tanto rumore per una cosa tanto semplice. Se ci pensate bene, anche scopare è semplice, ma di certo non ricordate l'emozione della prima scopata come una stronzata. Insomma, cercate di capirmi. Tutto è filato liscio fino a quando si sarebbe dovuto aprire il lettore, che invece non si è aperto. Naturalmente ho creduto di aver impastrocchiato, perciò, con calma, mi sono riletto gli appunti e ho ripetuto il percorso. Tutto bene fino al punto in cui il lettore non si era aperto. Anche stavolta rimane chiuso, serrato come una cassaforte, il primo impeto è scassinarlo. Ad alcune tentazioni si può cedere pressoché impunemente, ad altre no. Sospetto che le macchine percepiscano le vibrazioni delle incazzature violente, che abbiano anche paura, perché mentre cerco di andare avanti in qualche modo, digitando avanti e indietro, lui comincia a frignare che manca una cosa o quell'altra, tutti nomi che suonano arabo, mi chiede perfino se sono d'accordo, figuriamoci, di fare questa o quella cosa, di installare, convertire programmi e tutto quello che gli passa per l'hard disk. Si spiega in termini così astrusi che a momenti sospetto che mi stia prendendo per il culo. Verrà mai il giorno in cui gli umani saranno presi per il culo dalle macchine? Questo potrebbe essere un primo tentativo. Chiudo le applicazioni, arresto il sistema e spengo la ciabatta, tanto per fargli capire chi comanda, poi telefono al mago che me lo ha venduto, sperando che faccia un salto a casa mia per fare un prodigio. Mi dice di portarglielo in laboratorio. Ti pareva. Prendo un foglio e mi faccio una mappa della disposizione dei fili, poi li stacco, lo carico in macchina e glielo porto. Dice che gli darà un'occhiata nel pomeriggio, ma chi ci crede. Se va bene, se ne parlerà a fine settimana. Sono passati pochi giorni da quando, proprio su questo stesso diario, mi chiedevo chi avesse sponsorizzato quell'interessante studio americano che scagionava i cellulari da ogni accusa di inquinamento atmosferico e biologico, anzi, li proponeva come stimolo per i riflessi cerebrali e perfino come efficace rimedio contro l'Alzheimer, e nello stesso tempo quasi mi rimproveravo di non saper accettare le buone notizie con l'entusiasmo che meritano, e soprattutto la tendenza di mettermi a cercare le verità nascoste, in genere tutt'altro che entusiasmanti. Think dirty, dicono gli anglosassoni, nel dubbio pensa male e coglierai nel segno. Il fatto è che un tizio si è presentato in televisione con una notizia di certo non sponsorizzata. Non ho capito se si trattasse di un risarcimento, ma certamente di un riconoscimento di invalidità concessogli da un tribunale per gravissime patologie nella zona del trigemino, dovute all'uso prolungato del cellulare. Mai avuto una semplice infiammazione al trigemino? Io sì, e sono cazzi. Chiedo scusa per la mancanza di dettagli nel riferirmi al fatto, ma di rado mi basta la pazienza per vedermi tutto il telegiornale e il più delle volte capto le notizie passando davanti al televisore e i dettagli si perdono. Dunque, dov'è la verità, ma soprattutto, è qualcosa che esiste realmente, sui commodi causa, oppure è un'idea modificabile secondo i costumi del mercato globale? E' possibile che merce di scambio lo sia sempre stata. Certo, su mercati più ristretti. Mala tempora currunt, si diceva nella Roma antica. Che nulla sia cambiato, da allora, eccetto le proporzioni?

lunedì 19 luglio 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Martedì, 2 marzo 2010
Continuo con gli antibiotici, la tosse è quasi sparita, la febbre non c’è più eppure non mi sento tranquillo. C’è qualcosa, localizzabile più o meno nella zona bronchiale, una sorta di attrito connesso alla respirazione. Oggi la sesta compressa. Sono inquieto e forastico come un animale in cattività. Cerco di passare il tempo al computer, quando mi stanco faccio un po’ di zapping, alternato con la lettura di un libro di Urania, capitatomi chissà come tra le mani. In realtà lo sto rileggendo, credo di averlo comprato in offerta speciale una ventina di anni fa. E’ ambientato a Milano, molto avanti nel ventunesimo secolo, in una società in parte ancora umana, ma per lo più popolata da esseri sintetici sempre in cerca di una droga micidiale che li stecchisce. Lettura in automatico, stanca e disinteressata, fregandomene perfino di seguire la trama. Al popolo televisivo, quello che paga ancora il canone, si fa sapere che Fabrizio Corona dà lezioni di Economia all’università di Salerno. Il popolo televisivo non si pone domande, è abituato a tutto, ingoia le notizie e poi, benché non tutti ci riescano, le vomita prima che arrivino ai cervello o ai terminali nervosi. Non c’è rischio di bulimia. Gran parte dell’Italia calcistica è in pena per la Juventus, dopo le ultime vicende torinesi, e Zaccheroni cerca giustificazioni per colpe che non ha. Brutta gatta da pelare. Malgrado piccoli ritocchi, consentiti, ci mancherebbe, a un divo della TV, Enrico Variale non è più lo stesso, ha perso lo smalto, ha il sorriso spento, ogni domenica è peggio. La Juventus si riprenderà, speriamo, o lo vedremo spegnersi come una candela. Mi sono fatto spiegare come si masterizza un CD. Lo so che è roba da adolescenti, forse anche da bambini. Se non mi fossi rotto la schiena per imparare cinque lingue straniere, sarebbe roba da ridere anche per me. Avrei potuto studiarne una di meno, magari il russo. Quando ho cominciato, i russi erano lontani, invisibili, gente di un altro pianeta, si sarebbe potuto organizzare un concorso a premi per chi ne avesse incontrati almeno un paio nel giro di un anno. Conoscere il russo avrebbe potuto essere utile per il commercio, per l'interpretariato, non si sa mai. Questo, prima dell'invasione. Da un giorno all'altro sono cominciate a piovere russe e ucraine, una grandine inarrestabile di bionde dagli occhi azzurri, fisico slanciato, gambe chilometriche e tacchi stratosferici. Figurarsi gli sprovveduti benestanti di provincia, sposati e non sposati, irretiti come topi dai serpenti e ansiosi di lasciarsi divorare insieme ai loro patrimoni. Insomma, tra badanti, bariste, mogli, amanti e puttane, ce ne sono in giro troppe perché chi ha bisogno di un interprete possa venire da me. Non solo per il grado di conoscenza della lingua, di certo non potrei competere con una nativa, ma anche per altri fattori tutt'altro che secondari, la misura del girovita, ad esempio, quella del petto, dei fianchi. Però lo studio del russo mi ha portato in aliscafo sulla Moscova, sulla Piazza Rossa, davanti alla meraviglia di San Basilio, nella fortezza del Kremlino, nelle basiliche rosse di icone al suo interno, nei GUM, i magazzini generali moscoviti, prima della crisi valutaria, quando per un dollaro ti davano centoquaranta rubli e con quaranta facevi pranzo al ristorante. Se proprio volevi strafare, potevi affittare un'auto con autista per cinquanta dollari al mese. Questo accadeva nel 1992, quando fra le commesse dei magazzini generali erano anche donnone di cinquant'anni con indosso un grembiule celeste e i capelli raccolti alla meglio dietro la nuca e ti trattavano come tante mamme. I negozi, disseminati lungo i passaggi sopraelevati fiancheggiati da ringhiere in ferro lavorato, erano simili ai nostri, quelli degli anni cinquanta, con le porte in legno corroso e le mensole di legno sgangherato alle spalle delle commesse. Ma la diversità , quella vera, la notavi solo in un secondo momento ed era l'assoluta mancanza di pubblicità . Un mondo magico, sospeso nell'etere. Ci sono tornato tre anni dopo, anno 1995, per tre settimane di corso intensivo all'Università Lomonosov a conclusione degli studi per il conseguimento di un certificato. Mosca era un'altra città . Le botteghe erano boutiques, le commesse, sciupamaschi in gran tiro, la pubblicità imperversava sugli spazi canonici e su ogni mezzo in movimento, inclusi i treni della sotterranea. Il cambio era ancora conveniente, ma la favola era finita. Il mio rapporto con l'anima russa è stato un rapporto romantico, di grande sentimento. Riesce ancora a commuovermi. Non sono più tanto sicuro che avrei dovuto escludere proprio il russo a favore dell'informatica. Forse lo spagnolo. Rispetto alle altre lingue, per noi italiani è tanto facile che si potrebbe imparare anche a ottant'anni. Però, se non lo avessi studiato, non mi sarei potuto fare una litigata con un cameriere in un ristorante di Siviglia, che ci aveva servito sei scodelle di colla, quando avrebbero dovuto essere di spaghetti. Diceva che in Spagna si usa così, ma siccome gli spaghetti sono più italiani che spagnoli e per quel ne dice il consesso multietnico i mangiaspaghetti titolati siamo noi, non ha avuto scampo. Ci ha servito di nuovo spaghetti con sei minuti di bollitura, cronometro alla mano. I connazionali mi hanno fatto festa, il cameriere si è unito a noi e tutto è finito a tarallucci e vino. Forse anche lo spagnolo ha avuto la sua importanza e io sono uno stronzo che non rispetta le proprie scelte. Se ho scelto di impararle ci sarà stato un motivo e se non c'era si vede che mi piacevano. E mi piacciono ancora. Ora non ho più neanche bisogno di scegliere. Ci vorrà solo un po' di tempo. Dopo tutto, anche l'informatica è linguaggio.

mercoledì 14 luglio 2010

Lunedì, 1° marzo 2010
Alla fine ho dato retta a Oscar Wilde, resistere a tutto tranne alle tentazioni e ieri pomeriggio sono andato a finire il lavoro allo strallo. Accanto a me, dentro una barca molto simile alla mia, si erano accampati una russa, forse, comunque una ragazza dal timbro slavo, e un italiano, che avevano fatto tappa in una rosticceria o un Fast Food e si stavano gustando il contenuto delle loro vaschette di plastica. Cordiali e simpatici. Mi hanno chiesto se volevo favorire, ma ho declinato. Con timballo e crostata nello stomaco, sarebbe stata profanazione. Si sono anche preoccupati quando mi hanno sentito smoccolare per via di una vite sfuggitami di mano e finita nella sabbia, ma l’ho trovata subito e si sono tranquillizzati. Finito di mangiare, hanno raccolto con diligenza i loro RSU, mi hanno salutato e se ne sono andati sorridendo. Sono stati una compagnia gradevole, anche se abbiamo parlato quasi niente, ma potrebbe esserlo stata proprio per questo, oppure perché sorridevano. Appena finito, mi sono precipitato a casa sperando di non dover passare il resto della giornata nell’afflizione e nel pentimento e nella morsa punitiva di una dannata tosse scassacostole. Passando davanti alla TV ho sbirciato la Marcuzzi tutta in allegria, con gli incisivi che la precedevano di un centimetro, che si affannava ad invitare la sua audience a non perdersi la serata di Grande Fratello, importantissima insieme a quella di domani, che sarà la finale. Non so se ho capito bene. E’ di grande aiuto, la Marcuzzi, ogni volta che la vedi ti preoccupi delle tue funzioni intestinali. Siccome la vedi spesso, sei sicuro di non trascurare una delle mansioni imprescindibili per la salute, in generale, ma soprattutto per l’umore, il peso, la linea, il giro della cintura, che se tira sono cazzi, perché ne soffre la digestione, la circolazione il generale benessere. Le si dovrebbe erigere, non dico un monumento, ma sì, magari un busto piccolino in una piazzetta secondaria, oppure ai giardini pubblici, per meriti di carattere umanitario. Molta gente, tuttavia, vorrebbe rivolgere una preghiera alla Marcuzzi, di cambiare cioè l’orario in cui ci si presenta con tutte quelle donne aggredite dalla stipsi così gonfie e sofferenti. Anche se vuole farci credere che sono piene d’aria, gonfiando, sgonfiando o facendo scoppiare palloncini, non siamo tanto sprovveduti e sappiamo di cosa sono piene e sappiamo anche che se quella roba non viene espulsa a tempo debito e la si lascia accumulare nei posti che sappiamo, emana un fetore infernale. Pensieri di questo genere non sono l’ideale mentre ci si infila in bocca una forchettata di tagliatelle o un paio di tortellini ripieni. Poi, guardando il telegiornale, mi ha fatto piacere sentire studenti e genitori intervistati per strada che si dichiaravano favorevoli al cinque in condotta. Di fronte allo spavento sofferto dalla stampa per il numero dei cinque piovuti nel primo quadrimestre appena chiuso, di fronte a filosofi e poeti che remano contro, denunciando difetti senza proporre soluzioni, l’atteggiamento dei ragazzi mi ha commosso. Anche quello dei genitori. E’ probabile che si sentissero perduti, che aggredissero insegnanti e presidi proprio perché gli si permetteva di farlo e in realtà non avrebbero voluto. Anche i cavalli danno i numeri se si obbliga il vetturino a salire a cassetta senza redini. Al contrario di quelli geologici, i terremoti nelle istituzioni possono anche essere auspicabili e spazzare vani e artificiosi castelli di carta eretti da individui dei quali solo la boria supera l’incompetenza. Chi vivrà, vedrà. Basta parlare di scuola, sono stufo, ma mi ci tirano per i capelli. A proposito di terremoti, che cazzo succede? Non mi sorprenderebbe che la bistrattata terra avesse deciso di presentare il conto, a suo modo, per i danni morali e materiali relativi agli ultimi cinquanta o sessant’anni. E’ anche ipotizzabile che dopo tutti gli scossoni dovuti alle bombe atomiche, le esplosioni continue nelle miniere, le rimozioni di minerali dal sottosuolo, l’estrazione, sempre dal sottosuolo, di milioni di tonnellate di gas e di petrolio, abbia dovuto ricompattarsi con qualche scrollatina. Se è vero, però, che anche le cose hanno un’anima, come molti sostengono, adducendo, fra molti altri, l’esempio delle piante che crescono belle e rigogliose se si lascia che ascoltino della buona musica, allora la terra potrebbe anche essere in preda a una nevrosi che la induce a inviare muti messaggi di protesta nell’unico modo che conosce. Sperando, a furia di tsunami e terremoti epocali, di farsi capire. Naturalmente tutti sono invitati a riflettere, perché la protesta è globale e non limitata ai paesi colpiti. Una fratellanza latente, che non unisce solo gli individui nel momento della disgrazia, ma di recente pare essersi anch’essa globalizzata ed estesa ai popoli, obbliga tutti i governi a condividere la sciagura, non solo con una nota di cordoglio, ma aprendo le casse e fornendo aiuti. Di conseguenza, le proteste di madre terra hanno una audience sempre più attenta e interessata, ciascuna nazione per i costi che le competono. Capisco che a valutare le disgrazie con riferimenti al volgare denaro si possa venire tacciati di ignominiosa insensibilità, ma si tratta di un ragionamento tutt’altro che surrettizio. Pare che la Florida abbia di recente sospeso l’accoglienza di profughi dalle zone disastrate e inviato a Barrack Obama un messaggio forte e chiaro, riducibile a una sintesi di due parole. Chi paga?

domenica 11 luglio 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Domenica, 28 febbraio 2010. Sono le otto e venti e ho già fatto visita alla pasticceria, ho messo tre maritozzi freschi di forno in tinello e aspetto che mia moglie finisca le prime faccende mattutine per fare colazione insieme. Ci concediamo questa trattamento luculliano solo il sabato e la domenica. Concedercela tutti i giorni non ci manderebbe in rovina, ma i maritozzi non avrebbero lo stesso sapore. Rientrerebbero nell’ordinario e perderebbe il gusto aggiunto delle aspettative, insomma, sarebbero come una domenica in una settimana di tutte domeniche. Non è indispensabile leggere Leopardi per sapere che è il sabato il giorno più importante, il giorno delle attese. Regolarmente deluse il giorno seguente, con tutte le connotazioni allegoriche che ne conseguono, ma questo è dettaglio di poco conto. Si fa strada la tentazione di andare a respirare aria di mare e finire il lavoro alla barca, ma il cielo è coperto e l’aria umida. Più tardi, però, potrebbe uscire il sole. Per il momento mi godo un piccolo progresso che ho fatto al computer. Ho scoperto, a furia di tentativi in genere infelici, che c’è un programma per ascoltare CD. Qualcuno potrebbe pensare che sono scemo e irrecuperabile, ma il fatto è che in un ipotetico percorso di apprendimento informatico in parallelo con la scuola elementare, media e superiore, tredici anni nel complesso, io mi troverei, nella migliore delle ipotesi, in terza elementare. Ecco perché, se di quando in quando faccio una scoperta dell’acqua calda, merito comprensione. Dunque, in virtù di tale performance, ho potuto inserire un CD nel relativo programma di ascolto e proprio adesso, mentre scrivo, posso godermi l’ouverture da La sposa venduta, opera comica di Bedrich Smetana, boemo, figlio di un birraio che strimpellava il violino all’osteria, in compagnia di amici, che lo ispirò a seguire la via della grande musica. Capisco che strimpellare un violino non è il modo più accreditato per ispirare un figlio a diventare un celebre compositore, ma non è possibile spiegare tutto, neppure oggi, figuriamoci nell’Ottocento. Forse c’era più amore, più rispetto, più tempo. Ispirare un figlio a seguire una strada, una carriera, quale che sia, non c’è più tempo. Sarebbe già tanto riuscire ad ispirarlo verso una sana istruzione, ma anche per traguardi minimi, molto al di sotto dei sogni di successo, non c’è più tempo. Almeno a giudicare dai traguardi che si propone la nuova riforma scolastica, che si è proposta il compito di riformare le disgraziate riforme degli ultimi anni. Si vuole reintrodurre il merito e la selezione, ma ci pensate?, entrambi, attualmente, illustri sconosciuti. Si vuole arginare l’aggressività e il bullismo con il cinque in condotta, che porta alla bocciatura, una misura anche troppo tenera per chi meriterebbe di essere denunciato e ammanettato. Si vuole rendere più impegnativi gli esami di terza media, perché appunto, la scuola media cessi di essere una terra di nessuno e ricominci a preparare gli studenti per la scuola superiore. Si vuole consentire di accedere all’esame di maturità solo se sufficienti in tutte le materie, evitando di riempire le sedi di esami di debitori morosi che mai potranno restituire il dovuto. Non se ne deduce un bel panorama. Se è stata necessaria una riforma per tornare indietro di una cinquantina d’anni, quando la scuola italiana, attualmente terz’ultima in graduatoria, era fra le prime d’Europa, vuol dire che molti di quelli che si sono alternati sulla poltrona del ministero hanno pisciato fuori della tazza. Inutile cercare responsabili a destra o a sinistra, l’hanno fatto un po’ tutti, a cominciare da chi si è accreditata l’eliminazione degli esami di riparazione. Se mi fermo a pensare che la reintroduzione del cinque in condotta ha fatto gridare al fascismo, che ha fatto gridare al razzismo l’istituzione di corsi preliminari di lingua italiana per gli extracomunitari, da frequentare prima dell’inserimento nelle rispettive classi, se da una parte mi viene da piangere, dall’altra mi sento montare una rabbia impotente verso il testadicazzismo imperante. C’è anche da dire che certi filosofi, se incompetenti in materia, dovrebbero smetterla di sparare stronzate su argomenti delicati e davvero importanti come la riforma di un sistema che ha funzionato a rovescio e ha fatto salire l’ignoranza dei giovani italiani ai primi posti nelle graduatorie europee. Vorrei ricordare a questi signori che la competenza, in tale settore, viene solo in minima parte da studi filosofici, sociologici, antropologici, didattici, metodologici, e chi più ne ha più ne metta, la competenza viene dal sudore versato sul campo, dalla delusione per l’insuccesso, specie se indotto da ordinanze nebulose e dai fini oscuri, dal contatto quotidiano con una massa di adolescenti cui è stato instillato il concetto che la scuola è una perdita di tempo e che gli insegnanti sono individui in odore di delinquenza. Perciò, quando uno di tali emeriti sostiene che le innovazioni proposte non sono valide e che bisognerebbe cambiare i programmi e anche i professori, dovrebbe aver provato tutto questo sulla propria pelle. Invece pare che le cose stiano diversamente, infatti, nelle righe successive, l’emerito, dopo averci informato che ai suoi tempi c’erano più bocciature perché la scuola era più severa, considerazione ben nota anche al cucco, incredibilmente confessa di non sapere se anche oggi sia così. Non ci credo. Siamo al cuore del problema e lui non sa se anche oggi sia così, ed è lo stesso che un paio di righe avanti sosteneva l’inutilità delle riforme e suggeriva di cambiare i programmi e mandare a spasso i professori. Caro filosofo, non è obbligatorio scrivere, si può andare a caccia, a pesca, prendere lezioni di vela, se proprio si dovesse venire interrogati su argomenti sconosciuti, si può sempre chiedere soccorso a un caritatevole “no comment”. L’Inglese aiuta. Di nuovo ci sono cascato. In questi ultimi giorni divento facilmente serioso e ne risente il mio stile. Perde fluidità, lucidità e smalto. Sarà per colpa degli antibiotici. Pazienza. Per fortuna posso consolarmi subito. Sta chiamando mia moglie, mi aspetta un timballo da sballo. E se è vero, come è vero, che oggi è domenica, avrà anche preparato una crostata con la marmellata di cachi.

sabato 10 luglio 2010

Sabato, 27 febbraio 2010. Un forte dolore all’occhio sinistro, come una pressione interna che si propagava alle arcate dentali. Di dormire, neanche parlarne. Sono sceso in salotto e mi sono disteso sul divano davanti al televisore. Arancia meccanica, già iniziato. Me lo sono rivisto, dopo secoli. Non mi ricordo gran ché, perché con la testa più sollevata il dolore diminuiva e devo aver ceduto a diverse pennichelle. Alle quattro sono tornato a letto e ho dormito fino alle otto. Tutto sommato, poteva andare peggio. Stamattina mi sento bene, se non fosse per un dolorino all’arcata dentale destra, che con l’occhio sinistro non ci entrerebbe un cazzo, se non fosse per il fatto che le rotture di coglioni percorrono vie imperscrutabili. Ormai ho imparato che il peggio è sempre dietro l’angolo, perciò meglio accontentarsi. Il sole splende glorioso, il cielo è azzurro e la temperatura è gradevole, anche se tende al fresco, io me ne sto in casa, al riparo degli antibiotici, timoroso di mettere fuori il naso ma fortemente tentato di andare a terminare il lavoro allo strallo. Chi era, Oscar Wilde, che sosteneva di saper resistere a tutto, tranne alle tentazioni? Di certo non lo aveva mai sovrastato la minaccia di una bronchite epocale. Pomeriggio in casa. Guarderò la pubblicità alla televisione. Si fa per dire, ma capita di dubitare se sia la pubblicità a interrompere le trasmissioni o viceversa. L’unica difesa è spegnere l’audio, con la speranza che non tutte le cellule cerebrali finiscano per infettarsi. Invece di sentir parlare degli inestetismi della cellulite ti godi magari un panorama di belle ragazze, invece di sentir parlare di un acido che spiana le rughe, guardi dei visi prima e dopo la cura, in genere femminili, che magari ti spingono a riflettere sulla caducità dell’esistenza. E’ importante che durante la pubblicità il cervello resti attivo e ti proponga quesiti, riflessioni, constatazioni, che continui a sentirsi vivo, propositivo, senza lasciarsi ingozzare di termini insignificanti, a volte sconosciuti, che l’audio riesce a contrabbandare come l’ovvio nettare della vita. Rifiutare l’ipnosi collettiva, avere il coraggio di dichiarare che gli inestetismi della cellulite, complimenti a chi ha il merito del conio, ci piacciono. Si, ci piace carezzare un’anca, una coscia, anche se imperfetta per via di qualche piccolo grumo di grasso sottopelle. Non è la perfezione che affascina, non lo è mai stata. Il fascino sta in un piccolo difetto, un moto insolito delle labbra, una personale inclinazione dello sguardo, un ciuffo di capelli fuori posto, in una lieve irregolarità della pelle come la cellulite. E allora, fanculo a voi e ai vostri messaggi sugli inestetismi della cellulite, che hanno fatto rincoglionire e continuano a fare rincoglionire e sono la disperazione di povere coglione che vi hanno dato ascolto e continuano a farlo. Per concludere, evviva la cellulite!, e se davvero vi disgusta carezzare una coscia ben tornita con qualche piccolo grumo, beh, allora sono cazzi vostri. Passiamo a Terence Hill, che ho intravisto negli spazi promozionali dentro la tonaca di un Don Matteo dai discutibili trascorsi. Volenti o nolenti, capita di identificare l’attore nel personaggio, e quando vedi Don Matteo non puoi evitare che ti torni alla mente, magari in un flash, Lo chiamavano Trinità, Altrimenti ci arrabbiamo, e un numero infinito di film in cui volavano più cazzotti che anime in cielo in un film di meteore assassine. Dopo i noti trascorsi, in coppia con Bud Spencer, che non era certo da meno in fatto di mazzate demolitrici di teste, Terence appare un tantino improbabile nei panni di un prete, anche se, va riconosciuto, la connotazione principale del personaggio è quella del detective. Il fatto è che gli riusciva facile interpretare il duro, o il Robin Hood dal sorriso beffardo, mentre nei panni del buono fa una fatica da facchino. Però in suo favore gioca la dislocazione temporale, cioè il fatto che facesse il duro prima di farsi prete. Un duro che si fa prete sa di ravvedimento, di conversione, di rivelazione, di catarsi, resurrezione, insomma, un piccolo miracolo. E’ in linea con l’immaginario collettivo, con la speranza in un’umanità migliore, direi accettabile. Se invece da prete si fosse tramutato in un duro sarebbe stato inquietante. Immaginate la gente comune, espressione molto di moda alla TV, indotta a sospettare ogni prete, peggio ancora il proprio parroco e i suoi assistenti, per lo più cadenti e decrepiti, visto il crollo inarrestabile delle vocazioni giovanili al sacerdozio, di essere una masnada di potenziali attaccabrighe, giocatori d’azzardo e arroganti pistoleri che, occasionalmente, si fanno anche beffe delle forze dell’ordine. Meglio essere passato dal duro al prete. Resta comunque il fatto che lo sguardo di Terence, quando fa il buono, non convince.

venerdì 9 luglio 2010

Venerdì, 26 febbraio 2010
Ieri ho ripreso il lavoro alla barca. E’ un lavoro scomodo e ci vuole tempo, e pazienza, tanta. Comunque, sono più che a mezza strada. Finirò il lavoro la prossima volta che ci vado, è sicuro. Il difficile è sapere quando sarà la prossima volta, perché ieri sera mi è riesploso un raffreddore che sembra voglia squagliarmi il cervello e farmelo uscire dalle narici. Naturalmente è tornata la tosse. Apparentemente dopo gli antibiotici si era solo sopita, infatti la riconosco. Sale da profondità insondabili e inesplorate del torace, e ad ogni colpo i miei organi, tutti, dalle tonsille fino al colon, subiscono uno scossone tremendo che rischia di metterli fuori uso. Qualche giorno dopo che la febbre era sparita, avevo creduto di poter uscire senza berretto. Avevo creduto male. Troppo presto. Stamattina sono andato al consorzio medico. La mia doc era superprenotata, perciò mi sono fatto visitare da un altro. Mi ha auscultato e ha detto che quello che sentiva non era niente di buono e che se non si provvedeva in tempo rischiavo una bronchite epocale. Dieci compresse di antibiotici. Dieci. Gli faccio presente che mi sento già uno straccio e queste mi ridurranno ancora peggio. Nessuna compassione e niente sconti. Bravo. Il medico pietoso fa la ferita purulenta, si dice. Meglio uno spietato. A proposito di medici, che cazzo sta succedendo alla categoria? Pare che gli ospedali siano diventati luoghi pericolosi. La gente ha paura. Si entra sani, o quasi, e si esce distesi dentro una bara senza uno straccio di spiegazione. C’è un sacco di gente, qua e là per l’Italia, che vuole sapere il perché. Mogli che vogliono sapere il perché di una vedovanza a sorpresa, genitori che vogliono sapere perché un figlio sano è stato dimesso da morto, persone che vogliono sapere il perché di familiari improvvisatisi estinti. Le procure rigurgitano di denunce, fioccano le autopsie e i sequestri di cartelle cliniche e, naturalmente, a conclusione di tutto, milionarie richieste di risarcimenti. Per quanta fiducia si voglia conservare nei medici, va detto che le cronache ospedaliere non aiutano. Bambina ricoverata in ospedale con frattura al braccio sinistro esce ingessata al braccio destro, o viceversa, e per fortuna non si era trattato di un’amputazione, forbici “a ricordo” nello stomaco di una donna, o nell’intestino, individuate a quindici anni di distanza dall’operazione, malgrado ripetute visite a causa dei forti dolori. Mi viene in mente una barzelletta . Veniva chiesto a un tizio dove era morto suo nonno e il tizio rispondeva che era morto a letto, poi gli veniva chiesto dove fosse morto suo padre e il tizio di nuovo rispondeva che era morto a letto e infine gli veniva chiesto come avesse ancora il coraggio di andare a letto. Sarebbe sufficiente sostituire il letto con l’ospedale e la storiella conserverebbe, più o meno, lo stesso humour. Oggi, però, non farebbe ridere. Anzi, in vista di un ricovero, potrebbe anche mettere in agitazione. Dopo tutto, in un paese dove si sputa sul merito poteva anche andare peggio. Sulla mia laurea non risulta il centodieci che mi sono sudato mentre lavoravo, sposato, due figli intervallati con gli esami, perché non si riteneva giusto umiliare coloro che avevano conseguito risultati inferiori, coloro che fra l’altro non lavoravano e non avevano un cazzo di problema, una famiglia, per esempio. In virtù di una considerazione così altamente umanitaria, il voto è stato eliminato da tutti i fogli di laurea. In un paese dove si sputa sul merito, dicevo, e dove si lascia che certe regole vengano imposte da emerite teste di cazzo, non ci si può meravigliare di niente. Neppure che in una categoria di così vitale rilevanza, accanto a professionisti e scienziati di fama internazionale che sono un vanto per tutti, possano coesistere elementi inquinanti e irresponsabili che sono una disgrazia per tutti. Il trend è ancora in vigore e non accenna a cambiare. Di fronte alle difficoltà, aumentare l’impegno, suona arcaico, obsoleto. Molto meglio di fronte alle difficoltà, eliminare le difficoltà. Nella scuola ha funzionato così per decenni. La grammatica era difficile, nei testi di lingue straniere veniva quindi eliminata, se ne lasciava una rapidissima sintesi solo come alibi per non essere svergognati. I programmi di matematica, ignobilmente impegnativi nei licei scientifici, venivano spolpati come cosce di pollo, ridotti all’osso, per gli esamini colmadebiti veniva ritagliato uno scampolo dal programma annuale, insomma, guai a parlare di maggiore impegno. La parola d’ordine: eliminare o almeno ridurre, ma in modo sensibile, le difficoltà. Tutti bravi e meritevoli. Ma non si può essere meritevoli tutti allo stesso modo, perché c’è sempre qualcuno che lo è di più o meglio che lo è davvero. Sono quelli che si incazzano, perché vorrebbero affrontarle le difficoltà, e imparare quanto spetta loro di diritto. Ci sono cascato di nuovo. Troppo serio, quasi serioso, diociscampi. Ma vale davvero la pena di incazzarsi, mettere in subbuglio le arterie, rischiare l’ictus, l’infarto e l’aritmia, solo perché la madre delle teste di cazzo è sempre gravida? E ancora, come si fa ad essere sicuri che la nostra prospettiva non sia ingannevole? Chi ci assicura di non essere noi le teste di cazzo visto che un fiume scorre dall’alto in basso per dei buoni motivi e che mettersi in testa di invertirne il corso è roba da matti? Meglio ricorrere alla filosofia del Tao, i cinesi la sanno lunga. Restare immobili, osservare, imparare. Il tempo ci insegnerà la via.

giovedì 8 luglio 2010

Martedì, 23 febbraio 2010. Questa mattina sono passato vicino alla clinica, non occorre il nome perché ce n’è una sola, e mi è caduto lo sguardo su una scritta mai vista prima. Servizio odontoiatrico. Sapeva di strano. Per gli studi dentistici privati di solito viene indicato il nome dello specialista preceduto dal titolo e dalla professione, su questo cartello, invece, brillava un insolito anonimato. Una nuova struttura sanitaria? Oggi bisogna vivere informati, ci sono più garanzie di sopravvivenza. Mia moglie la pensa come me e telefona alla clinica per chiedere spiegazioni. Il servizio odontoiatrico momentaneamente non risponde, ma la signorina al telefono non è di quelle arcigne e gentilmente le fornisce il numero diretto. Non risponde. Riproviamo un paio di volte in mattinata, con lo stesso risultato. Rifacciamo il numero nel pomeriggio, quando capita di passare davanti al telefono, una diecina di volte fra me e mia moglie. Nessun segno di vita. Fanculo. Oggi ho approfittato del sole per andare a fissare questi cazzo di occhielli. Per lo strallo. Il problema è che non c’è spazio per la mano, sotto, per far passare la vite e tirare il dado. Cerco di cavarmela tirando su la vite con un filo. Arriva il vento, d’un tratto, e si mette a rompere i coglioni cercando di intrecciarmi il filo fra le mani. Alla fine riesco a fare il nodo al punto giusto, tiro e dopo qualche tentativo la vite passa. Funziona. Ne metto una seconda, poi arrivano un paio di nuvoloni e si mette a piovere. Altro fanculo, recupero gli attrezzi e torno a casa. La mia vita non fila per il verso giusto. Troppi fanculo. Sarà il caso di contare quanti ne sforno in una giornata e portare la somma allo psicologo. Dico allo psicologo in senso generale, perché non ne conosco. Però, ripensandoci, potrebbe essere troppo impegnativo. Esagerare con i fanculo va ascritto a un qualche trauma? Di certo mi chiederà perché ho deciso di farmi visitare, e io che gli dico, che ho sfornato una cinquantina di fanculo nel corso di una giornata? Di certo suona riduttivo, ma non mi viene in mente nient’altro e se mi chiede come il problema influisce sulla mia vita, peggio ancora. Forse potrei dirgli che mi deprime vedere ridotte le mie capacità espressive. Mi chiederà delle paure che scaturiscono dal mio problema, e cosa gli rispondo? Che non lo so e devo pensarci. Vorrà anche sapere se il mio fastidio mi crea delle contrarietà, dei problemi, e anche in questo caso dovrei rispondere che non lo so e devo pensarci. Dopodiché, vorrà anche sapere che cazzo ci sono andato a fare, da lui. Sgradevole epilogo. Meglio soprassedere e lasciare che i fanculo folleggino la notte e il dì nei miei pensieri. Tanto, difficilmente mi scappano di bocca. Sono uno sproloquio tutto interiore. Non si tratta del monologo interiore, per intenderci, né del cosiddetto flusso della coscienza. Quella è roba da letterati con la elle maiuscola, parliamo di Virginia Woolf, di James Joyce, scrittori che hanno trasformato la semplice narrazione in un fatto molto più intimo. Più che agire, i protagonisti pensano, parlano con sé stessi, riflettono, fanno riferimenti al proprio passato, ad altre opere letterarie, con il risultato che per capirli, specie Joyce, ci vogliono almeno quattro lauree e tanto spirito di sacrificio. La popolazione studentesca, in genere, li detesta visceralmente. Però sono illuminanti. Prendiamo Virgina Woolf, con il suo monologo interiore. I pensieri non subiscono arresti, si inseguono, si modificano, dialogano nella nostra mente senza un attimo di sosta e influiscono sul nostro comportamento. Se chiedi la strada per la stazione a uno che sta pensando a qualcosa di bello, la sua ragazza, una bella amicizia stretta da poco, una vincita alla lotteria appena riscossa, insomma, in un momento in cui il suo monologo interiore gli manda stimoli gradevoli, allora non solo ti indicherà la strada, ma sarà pure tentato di accompagnarti in macchina. Se ti risponde in modo sgarbato, invece, può dipendere da un monologo interiore molesto. Chiaro? Quanto al flusso della coscienza, che è qualcosa di simile ma riguarda più Joyce, meglio spiegare che non si tratta della coscienza che distingue tra il bene e il male, che talvolta fa insorgere rimorsi, che induce a liberarsi di grossi rospi attraverso sorprendenti confessioni, niente di tutto ciò. Si tratta dello stato cosciente come opposto di uno stato non cosciente. Insomma, i sogni contano solo se si fanno a occhi aperti. Tutto qui. Gli scrittori possono essere gente strana, ma gli editori sono ancora più sorprendenti. Adesso puntano sulle carceri come fucina di nuovi scrittori. I carcerati potranno concorrere a premi letterari scrivendo le loro biografie. Pare che la prigione induca al pensiero, alla riflessione, a prendere coscienza della propria vita interiore, perciò c’è da aspettarsi grandi cose. Gli organizzatori non hanno dubbi in proposito. Potrebbero anche avere ragione. Però essere esclusi da un concorso per non aver mai rapinato una banca, scippato una vecchietta o ammazzato qualcuno può lasciare perplessi. Verrebbe quasi voglia di adeguare il curriculum, ma tra patteggiamenti, interrogatori dal GIP, dal GUP e udienze a intervalli di mesi, in prigione neanche ci finiresti entro i termini stabiliti dal bando.

mercoledì 7 luglio 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Lunedì 22 febbraio 2010. Attualmente ho tre barche. Tutte a vela. Due in vetroresina di quattro metri e quella che ho appena comprato dal mio amico pittore, pure di quattro metri e in vetroresina, ma più stabile e con il bordo più alto, meno soggetta a scuffiare. La più vecchia è un Vaurien, lo scrivo come lo sento pronunciare, ma in realtà l’ho visto scritto in almeno dieci modi diversi, e credo mai nel modo giusto. L’ho comprato una quindicina di anni fa, dal fratello di una collega, e me lo sono andato a prendere a Porto San Giorgio in una giornata di sole, con uno Scirocco sul giardinetto, leggero come una carezza. Una passeggiata di otto miglia a quattro nodi. Più o meno. In due ore ero a casa. E’ stato amore a prima vista e per anni ci siamo divertiti insieme. Sciroccate da trenta nodi e micidiali garbinate, come bruscolini. Non proprio come bruscolini, perché era uno sballo di adrenalina. Siamo arrivati fino a trentadue nodi, l’ho verificato sul giornale, e in una virata a collo si è spaccato il fiocco. Ma lui, il Vaurien, ha continuato come niente fosse e mi ha riportato a terra. Poi un giorno, invece di ritirarlo su un tratto di spiaggia riservato alle imbarcazioni, al sicuro, l’ho lasciato sulla riva del porto, in mezzo ai cavalletti e alle varie attrezzature dei pescatori. Forse per pigrizia. Me ne stavo a casa, tranquillo, quando è arrivata una mareggiata senza vento, insospettata, che ha gonfiato le acque del porto e lo ha sbatacchiato all’infinito contro le attrezzature da pesca. Difficile spiegare com’era ridotto. Squarci lunghi un palmo. Era da buttare, ma non me la sono sentita. Ho tappato i buchi alla meglio, con la vetroresina, l’ho riportato sulla spiaggia e per un paio di giorni l’ho curato come ho potuto. Stento ancora a crederlo, è sopravvissuto. L’ho provato un paio di volte, si destreggia ancora bene sulle onde. Naturalmente mostra tutti i segni della sciagura e lo scafo non è resistente come lo era prima, ma credo che lo sia a sufficienza. Comunque ho dovuto lasciarlo a riposo da quando mi è scoppiato un dolore infernale alla schiena mentre lo tiravo a riva. Da quel giorno mi sono messo a cercare un’altra barca, da ormeggiare al pontile, per risparmiare la schiena alla partenza e al rientro. A furia di cercare, spostandomi a nord e a sud per una trentina di chilometri di litorale, finalmente ho scovato un rudere in un cantiere. L’ho pagato una cifra irrisoria. Ci ho messo un po’ di tempo a riverniciarlo e tappare qualche piccolo buco, ci ho applicato un fuoribordo da due cavalli, per uscire dal porto ma soprattutto per tornare all’ormeggio, specie quando il vento fischia sopra al pentagramma, e ci vado avanti ormai da un paio d’anni, sorvolando sul fatto che si tratta di una barca piccola, instabile e scomoda da tenere all’ormeggio. Non saprei neppure dire che tipo di barca sia, somigliante a un fly junior ma un po’ più larga. Così, quando il mio amico pittore ha deciso di vendere la sua, di pari lunghezza ma molto più comoda e meno precaria in fatto di equilibrio, me la sono comprata, soprattutto perché può essere armata con la vela latina, o anche al terzo, entrambe molto più comode da issare e ammainare se si naviga da soli. Spesso vado a far visita al Vaurien, e provo quasi rimorso ad averlo lasciato sulla spiaggia, inoperoso, come un vecchietto in pensione. Ho anche provato a farmi prescrivere una ginnastica di riabilitazione per la colonna vertebrale, per poter uscire ancora insieme, ma poco ci manca che mi caccino in malo modo. Liste di prenotazione lunghe chilometri e scarsità di personale. La tizia che mi ha ricevuto era proprio incazzata e io più di lei. Ma non ha voluto sentire ragioni. Ha rifiutato perfino di mettermi in coda alla lista, per quanto sterminata, sforzandosi di spiegarmi che le mie speranze sarebbero naufragate nel mare dell’eternità. Ho provato in un istituto privato, dove le prestazioni erano anche piuttosto rapide e molte le aspettative di un miglioramento. Dopo un paio di mesi, molto denaro speso, scarse le aspettative, progressi zero. Mi sono tenuto il mal di schiena. Con il passare del tempo, dice la doc, andrà meglio.

domenica 4 luglio 2010

Domenica 21 febbraio
Finalmente non piove, anzi, un mattino di sole. Otto gradi e mezzo. Qui a due passi hanno aperto qualcosa che sta a metà fra una panetteria e una pasticceria e a volte torna comoda per andarci a comprare un paio di maritozzi appena usciti dal forno. Di solito facciamo colazione a fette biscottate e marmellata, ma stamattina bisogna festeggiare il sole. Ai due maritozzi aggiungo una treccina spennellata a dovere che mi strizza l’occhio da dietro il vetro. Torno a casa e metto tutto sul tavolo del tinello, poi passa mia moglie e approva con un’occhiata. Così cominciamo bene la giornata. Ieri è stata dal dentista e l’ha trovato un po’ giù di corda. Pare che, con la crisi in atto, gli italiani ridano di meno e mangino come possono, magari masticando con i canini se non con gli incisivi. La percentuale di affari in calo, rilevata dagli odontoiatri, si avvia al 20% e la paura è che tenda a salire. Non solo vengono procrastinati cure e interventi non proprio indifferibili, ai quali non è connessa una sofferenza immediata, ma soprattutto, aita, aita!, molta gente pare aver rinunciato alle protesi. Le protesi d’oro. Dunque sono in pensiero i dentisti, ma anche gli odontotecnici con i loro laboratori piccoli e grandi, che sfoderano corone, ponti e dentiere che poi vengono presentate al paziente come gioielli per teste coronate. Un mio amico dovrebbe rimettersi, chiedo venia per il linguaggio profano, quattro denti, solo per poter masticare in modo decente e non rovinarsi lo stomaco e il resto dell’apparato digerente. Gli è stato presentato un preventivo di ottomila, dico ottomila, euro. Il prezzo di un’utilitaria, che potrebbe costare anche di meno, pagamento in trentasei rate senza interessi. Lo si può capire, ha subito un contraccolpo ed è andato giù di corda, ma non è andato giù il preventivo. Per concludere, non me la sento di compatire i dentisti né di confortarli né di augurar loro che corone, ponti e dentiere si rimettano in moto. Se proprio non ce la fanno, si potrebbe studiare un congruo prepensionamento. La loro improvvisa sparizione potrebbe anche indurre qualcuno a migliorare e soprattutto snellire l’assistenza odontoiatrica e i comuni mortali tornerebbero a masticare senza azzardare coinvolgimenti nel giro dei mutui, specie se a tasso variabile, con il rischio di dover smettere di masticare del tutto. Arriva il postino e mi consegna la risposta di una casa editrice, una di quelle serie, che non prendono gli autori per coglioni cercando di vendergli i libri che hanno scritto. Se non sbaglio, ho spedito la proposta editoriale nell’ottobre del 2007. Dovrei essere emozionato, eccitato, invece è come aprire la busta di una pubblicità di cosmetici destinata a mia moglie. Mi si dice che il mio romanzo è interessante e certamente atto a tenere desta l’attenzione del lettore, ma purtroppo…., poi la solita stronzata dell’impossibilità di inquadrarlo nel programma editoriale. Il mio problema non è scrivere, ma inquadrare. Era comunque una pratica che nell’intimo avevo chiuso da tempo, perciò mi risparmio l’ultimo fanculo e finisco la colazione. C’è ancora il sole e la temperatura è sui dieci gradi. E’ il caso di azzardare una breve uscita. Prendo gli attrezzi e vado a lavorare alla barca. Sulla spiaggia c’è poco vento, si sta bene. Con il trapano comincio a fare il primo buco per fissare gli occhielli. E’ lento, svogliato, e ha ragione. L’ultima volta che l’ho messo in carica, ce l’ho lasciato una trentina di ore e devo aver mezzo arrostito la batteria. Degli otto fori in programma, riesco a farne quattro e il quinto rimane a metà. Ha fatto quello che ha potuto, perciò evito di smoccolare. A casa dovrei avere un piccolo trapano manuale, non ricordo bene dove, ma dovrebbe esserci. Sono un paio di chilometri. Rientro e mi metto a cercarlo. Lo trovo ma è bloccato, non lo uso da secoli. Il barattolo del lubrificante è vuoto, o quasi. Provo con inclinazioni diverse e alla fine riesco a spruzzarne qualche goccia sull’ingranaggio. Mi aiuto con un martello e alla fine si sblocca. Ritorno alla barca e finisco gli otto fori. Missione compiuta. Fossi anche rimasto a mezza strada, poco male. Mi premeva mettere un po’ di ossigeno nei polmoni, e anche un po’ di iodio. A pranzo mia moglie mi propone un timballo che è una cosa a metà fra le lasagne al forno e le tagliatelle al sugo. In epoca di pizzerie, rosticcerie, surgelati e forni a microonde è roba per pochi. Squilla il cellulare, da qualche parte, il mio, e come al solito dovrei mettermi a cercarlo, perché mi rimane nella stessa tasca anche per settimane e a volte ritorna nell’armadio con gli indumenti. Il suono è smorzato e sembra proprio venire dal piano di sopra. Spiacente, richiamerà. Spargo sulla crosta il parmigiano e comincio a lavorare di forchetta, prima che si raffreddi. Difficile dire perché, ma l’ondata del cellulare mi ha appena sfiorato. Quando esco mi dimentico sempre di portarmelo appresso e quando rientro non so mai dove si trovi. Insomma, sono rimasto immune all’ansia da cellulare. Quasi mi dispiace, adesso che sono stati riabilitati. Si diceva che fossero micidiali per la salute, che per effetto delle onde elettromagnetiche potessero insorgere neoplasie e disgrazie simili, e altro ancora, mentre adesso, incredibilmente, le stesse onde elettromagnetiche potenziano la memoria e costringono l’Alzheimer a regredire. E le prove? I topi, i veri amici dell’uomo, che si sono fatti venire l’Alzheimer e sono rimasti per mesi a rincoglionirsi al telefonino per fornire i dati. A voler essere maliziosi e considerando il giro di affari intorno ai cellulari, verrebbe da chiedersi chi ha sponsorizzato l’esperimento assolutorio ma, come le vie del Signore, anche quelle di eventuali committenti sono infinite. In mancanza di prove, Honì soit qui mal y pense.

sabato 3 luglio 2010

Sabato 20 febbraio 2010
Piove, leit-motiv di questa invernata di merda. In compenso non fa freddo e dovremmo essere intorno agli otto, nove gradi, e se siamo sopravvissuti così in tanti ai due, tre gradi stabili dei giorni scorsi, con l’influenza canonica e l’AN1H1 impegnate a dare una mano al governo a sfoltire il numero dei pensionati in eccesso, per la verità senza strafare, possiamo ragionevolmente sperare in un futuro di sopravvivenza, almeno fino a primavera. Ormai è a un tiro di schioppo. Auguriamoci allora di essere in tanti a congedarci da un maltempo che ha sconfinato in una zona temperata che non gli compete, e a rispedirlo, con accompagnamento di altisonanti Va’ ffanciullo, in Siberia e al Circolo polare artico da cui è venuto, con preghiera di restarci perché qui siamo a corto di inviti. Avrei anche potuto evitare di parafrasare un’esortazione così incisiva, di marchio tutto italiano, autoesportatasi gratuitamente, senza protezione di origine, con diffusione e successo incomparabili. Se tutti i nostri prodotti avessero la stessa presa, potremmo anche fregarcene della quotazione Euro-Dollaro e invadere i mercati dell’orbe terracqueo. Avrei potuto evitare la parafrasi, dicevo, visto che il tempo non ha personalità giuridica e non è in grado di citarmi in tribunale per danni morali e materiali. Di questi tempi, bisogna stare in guardia. Potrebbero farlo i meteorologi. Dai tempi del Colonnello Bernacca si sono moltiplicati a ritmo esponenziale e ormai sono un esercito. Meglio non stuzzicarli. Viviamo in una società dove i valori sono in crisi, e parlare di valori implica una morale. E’ un ritornello infinito, un’accusa ripetuta fino alla nausea, ma in genere il miracolo di un rimedio viene devoluto al Papa, che da parte sua può solo esortare le masse a rileggersi i dieci comandamenti. Eppure in nessun periodo storico, relativamente recente o lontano nel tempo, la morale si è attestata su vertici così eccelsi o è penetrata tanto profondamente nelle coscienze. Si è perfino mutata in qualcosa di concreto, quantificabile. In Euro, naturalmente. I reati contro la morale non si limitano più a riguardare le coscienze e a temere il giudizio divino, tutt’altro. Le denunce di reati contro la morale risuonano alte nelle aule dei tribunali e le condanne fioccano. In genere si tratta di risarcimenti, perché pare che i danni ascrivibili a tali reati siano smisurati. Ecco perché bisogna stare attenti a non usare certe espressioni, certe esortazioni diciamo, in versione originale. Si va più sicuri con un Va’ ffanciullo, per intenderci, e curando l’intonazione si azzera anche il rischio di fraintendimenti. Occhio alla magistratura, tra l’altro, in conflitto con la politica, sì, ma anche con sé stessa. Una sentenza assolutoria da un reato morale non da garanzie, la materia è controversa. Una seconda, più autorevole e spietata, può scaraventarti sul lastrico. Di fatto, una sentenza assolutoria di un giudice di pace è stata annullata dalla Cassazione e pare che i danni morali prodotti da un Vaffanculo scandito a dovere si aggirino intorno ai cinquantamila euro. Chi si azzarderà a sostenere ancora che i valori della morale sono in crisi? La morale, si diceva, cambia nel tempo e nello spazio. Per fare un esempio di cambiamenti nel tempo, la morale nel medioevo era ben altro che la morale del ‘700 e dell’800. Quanto allo spazio, si affermava, a ragione, che la morale in una tribù dell’Amazzonia non poteva essere la stessa che in una società evoluta di un paese occidentale. Forse si andrà ancora avanti così, per qualche tempo, ma quando i nuovi valori della morale, quelli in moneta sonante, si saranno consolidati ovunque, i cambiamenti nel tempo si arresteranno di colpo e quelli nello spazio dipenderanno unicamente dall’Ufficio Cambi. Chissà che non si arrivi a quotare la morale in borsa. .