mercoledì 13 ottobre 2010

Venerdì, 2 aprile 2010. Comincio a sospettare che dentro di me si sia pericolosamente risvegliato il bambino. Sono cinque giorni che sto giocando con questo cazzo di aggeggio. Ogni tanto mi illudo di averlo addomesticato, poi si fanno avanti nuovi dubbi, prima di fare i buchi sulla barca devo essere sicuro di bucare al punto giusto. Stamattina ho preso una decisione drastica. Ho fatto quattro buchi su un tavolone smisurato appoggiato al muro, mia figlia lo usa per dipingere i suoi enormi quadri astratti, e ci ho applicato la staffa con sopra il motore. Finalmente sono riuscito a sbloccare del tutto l’attrezzo e a rendermi conto di come funziona. Ho potuto fare tutte le prove che volevo, l’ho spostato in basso, in alto, poi un po’ più in alto e un po’ più in basso, poi da nessun’altra parte perché si è staccata una tavola e per poco non mi cade addosso con tutto il motore. Rimetto il tutto in macchina con una gran voglia di provare il risultato sulla barca, ma mia moglie mi avverte che sta arrivando un tizio per consegnare una giara per il prato. Passa un minuto ed è già davanti al cancello. Sistema la giara, poi, secondo accordi presi un paio di anni fa, durante i quali abbiamo aspettato inutilmente che si facesse vivo, mi incolla una terracotta vicino all’uscio. E’ una cosa artistica. Me l’ha fatta un paio di anni orsono, per l’appunto, con la promessa che di lì a qualche giorno sarebbe venuto a incollarla al muro. Ora, dopo l’acquisto della giara, non ha avuto scampo. Sulla terracotta ci abbiamo fatto incidere un castello con una scritta: My home is my castle. Più o meno vuol dire che a casa mia faccio come mi pare o anche non venite a rompermi i coglioni in casa. Quando il tizio ha finito è sosta per il pranzo. Verso le tre me ne torno in spiaggia per provare la staffa un’ultima volta, almeno me lo auguro, e dare un taglio a questo tormentone. La appoggio alla poppa e stavolta mi pare che vada bene. Prendo accuratamente le misure, il motore dovrebbe poter girare su se stesso ed essere richiamato in alto. Quando sto per andarmene, arriva il mio amico talismano e vuole dare un’occhiata. Armeggiamo un po’ con l’attrezzo e pare che vada bene, ma gli salta all’occhio che, navigando a vela, la staffa andrebbe a toccare l’acqua. Se si riuscisse, però, a far funzionare l’ostico meccanismo di sollevamento, tutto sarebbe risolto. Torno a casa e fisso di nuovo il supporto alla grossa tavola, stavolta tirando bene le viti e aggiungendo una rondella per parte. Faccio la prova e funziona. Corro a comprare una tavoletta di compensato, su cui tirare i dadi all’interno della barca, e il problema è risolto. Domani è sabato e posdomani è Pasqua. Se ne riparlerà lunedì, forse anche martedì. I soci del circolo pazienteranno. La vita è un lungo esercizio di pazienza. Quelli che non lo sanno si buttano dalla finestra (dicono che i suicidi siano solo gente impaziente), ci buttano la moglie, sparano, accoltellano e fanno esplodere bombe sotto il culo degli altri. In genere però la gente non crede alla pazienza, altrimenti non sarebbe stata aggiunta una propaggine al saggio detto, di questi tempi arcaizzante, la calma è la virtù dei forti. Adesso suona un po’ diverso, cito la calma è la virtù dei forti, la pazienza è la virtù dei coglioni. Nessuno vuole più essere paziente, nessuno vuole essere coglione, meglio esplodere e provocare cataclismi. Montezemolo gira in Ferrari, la vogliamo anche noi, vogliamo tutto e subito. Perfino i santi li vogliamo subito. Paolo VI, lo vogliamo santo e subito. A volte le verità più profonde si incontrano in luoghi impensabili. Meglio di tanti discorsi, è l’esempio calzante che squarcia la nebbia e ci irrora di luce feconda. Su una ceramica di Orvieto, raffigurante una tazza del cesso, appariva la scritta tutto arriva per chi sa aspettare. Di certo avrà indotto molta più gente a riflettere sulla imprescindibilità della pazienza di qualche voluminoso tomo di filosofia. Spesso neppure le citazioni dei personaggi più illustri appaiono sufficientemente chiare e credibili, specie quando appaiono il risultato di una elaborazione cerebrale. Prendiamo Jean Jacques Rousseau, quando dice che la pazienza è amara, ma il suo frutto è dolce. E’ un concetto astratto, non aggressivo, non ti afferra per le palle senza allentare la stretta fino a quando non hai capito. Neanche Pablo Neruda è molto convincente, sostenendo che solo l’ardente pazienza può portarci a una splendida felicità. Nessuno sa cosa sia la felicità, e vorrebbe tanto saperlo, se poi si tratta di una splendida felicità, si entra nella sfera dell’inconoscibile. Ma da dove ho cominciato per arrivare a tanta saggezza? Dalla tazza del cesso, certo. Se i soci del circolo faranno difficoltà per il ritardo, gli parlerò delle porcellane di Orvieto.

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