Giovedì, 5 luglio 2012 Davvero mi viene da piangere pensando
a come vada sprecato il tempo della vita, dico della vita, che ha durata
limitata e finisce con un funerale, dico con un funerale, e mettiamoci pure con
una sepoltura, come venga sprecato, dicevo, passando da un avvocato a un
commercialista per sistemare questioni di tasse, di contratti e di denaro,
specie se c’è chi intende metterci indebitamente le mani e ci fa stare con il
fiato sospeso. Purtroppo siamo in trincea, costretti a difenderci dai
delinquenti e dalle Istituzioni, che negli ultimi decenni si sono date molto da
fare per introdurre misure a protezione di parassiti e assassini. Basti pensare
alla gente che si trova ancora in galera per aver ardito difendersi da un
aggressore di certo non invitato in casa propria o da un rapinatore
malintenzionato. Il giardino dell’Eden è appassito per sempre e adesso è una
discarica a cielo aperto. La vita che crediamo di vivere è un pessimo
surrogato. Tutto questo, un concentrato di pessimismo esistenziale che viene da
una serie di giornate storte, ma spiega esaurientemente l’essenzialità di una
barca a vela e il flusso dell’eternità che ritorna nel momento in cui supero i
limiti dell’area portuale e mi dirigo verso il pontile. Anche a dispetto di
possibili inconvenienti. Da tre giorni non posso andare in mare giusto per uno
di tali possibili inconvenienti. Facciamo un rewind, appunto di tre giorni.
Finalmente una mattinata di vento come
piace a me, una ventina di nodi da nord est, pura goduria. Nel mezzo della
goduria, si spezza una sartia e l’albero finisce in mare con tutta la randa,
fiocco compreso. Non posso neanche dire di averlo visto finire in acqua, tanto
la cosa si è svolta rapidamente. Un attimo prima c’era, un attimo dopo non
c’era più. Nella retina, la scia di qualcosa che mi è sfrecciata davanti agli
occhi come il fulmine. Fortunatamente sono al largo, lontano dagli scogli, ma
il moto dell’onda, piuttosto consistente, mi porta in quella direzione. Però
ancora lontani. Lascio che la barca si porti sottovento, rispetto a tutto il
carico che la sartia rimasta e lo strallo si trascinano dietro, e comincio a
recuperare. Passa una grossa barca e lo skipper mi urla che vuole telefonare
alla Capitaneria. Gli grido di non farlo. Non è da escludere che potrebbe anche
scapparci una multa. Continuo a recuperare, e poco a poco ogni cosa torna a
bordo. Fortunatamente tutto fila liscio e in una ventina di minuti riesco a
completare il carico. Lego l’albero a poppa e a prua e spero che il motore non
faccia capricci, anche perché gli scogli sono vicini e cominciano a
preoccuparmi. Parte al primo colpo. Rientro senza difficoltà e metto ordine a
bordo. Piego la randa e il fiocco e verifico i danni. Si è spezzata la sartia
sinistra in alto, dove è assicurata (si fa per dire) all’albero. Ho sostituito
le sartie d’acciaio con delle cime robuste, ma sono fermo da tre giorni perché
non riesco a trovare due dadi con un passo speciale. Continuo le ricerche. Se
non li trovo, dovrò arrangiarmi in qualche modo. Tuttavia questo tipo di
preoccupazioni non mi preoccupa, se mi si consente la cacofonia. A preoccuparmi
sono quelle di cui ho parlato sopra, perché sono la non vita, lo spreco,
anticipi di morte.
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